Fare l’esegesi delle parole di Mourinho è sempre scivoloso. La questione dei fischi ha una doppia lettura, tra chi ritiene che sia una mossa per infuocare l’Olimpico in vista di giovedì e altri che lo vedono come un tentativo, rischioso, di alzare la tensione e allo stesso tempo cementare il gruppo. Tesi avallata dall’assemblea pubblica al fischio finale della gara col Verona in mezzo al campo e in favore di telecamera. Della serie: siamo noi, la famigerata famiglia, contro tutti. Forse a José avrebbero dovuto spiegare che la minor partecipazione del pubblico e i fischi che ha ascoltato riguardavano perlopiù dinamiche di curva e che le proteste o quantomeno il disappunto che l’Olimpico riserva a squadre che non rubano l’occhio a livello estetico, normalmente sono ben diverse. Ma la questione principale è un’altra. Ben più profonda.
Detto che il voler ribadire il concetto che “nella Roma adesso non ci sono Cafu, Maicon, Totti, Montella e Batistuta”, più che una difesa dei suoi ragazzi è sembrato un modo per rimarcare l’abisso tecnico tra la rosa che aveva a disposizione Capello quando ha vinto lo scudetto e la sua attuale, c’è un altro elemento che non è passato inosservato. E riguarda il monito lanciato nella conferenza post-gara: “Parleremo a fine stagione, avrò molte cose da dire…” Parole sibilline che a febbraio sottintendono un vaso di Pandora da scoperchiare, al netto delle rassicurazioni che arrivano da Trigoria di un progetto condiviso. Considerazioni che nascondono un malessere e che spesso sono il preludio ad un distacco. Al di là di come la si possa pensare, per una volta la strategia di José non convince fino in fondo. Sarà perché bene o male è la stessa che utilizzava 20 anni fa quando lì sì spiazzava un po’ tutti, proponendosi come un innovatore in materia.
Oggi gli interlocutori ai quali si rivolge sono consapevoli che ogni volta che affonda un colpo è per mandare un messaggio preciso. Che sia a Pinto, alla squadra, ai media o ai Friedkin, poco cambia. Il rischio è che quando si lascia guidare dall’istinto e dall’impulso può anche accelerare processi e alimentare inquietudini che si trasformano in boomerang per una squadra composta perlopiù da bravi ragazzi. La questione di fondo, del resto, è sempre la solita: lo Special One – nonostante abbia un contratto fino al 2024 – condiziona il suo ultimo anno nella Capitale ad un piano di rafforzamento che, visti i paletti del “settlement agreement”, appare difficile soddisfare.
FONTE: Il Messaggero – S. Carina