Tutto passa, tranne il talento. Quella di fuoriclasse è un’etichetta definitiva: resta tatuata per sempre, anche se contraddice l’essenza stessa di figure che non possono essere catalogate. Non conta la disciplina, conta l’Arte. Sempre di eccellenza si parla, no? Per questo non risulta irrispettoso né cacofonico il paragone scelto da Spalletti per rappresentare Totti dopo l’ultimo rigore dell’ultimo secondo: il Muhammad Ali del calcio. Totti non vola come una farfalla, anzi è sempre stato più potente che rapido, ma punge come un’ape da oltre vent’anni. E sì, come Ali, si è meritato un posto tra i grandi della storia dello sport per longevità, carisma, ammirazione.
IN COMUNE – Sul piano tecnico è già difficile confrontare due calciatori o due pugili, figurarsi due campioni di lavori così diversi. Ma una magia li tiene uniti in un filo comune: Roma. E’ a Roma che nel 1960 Ali si fece conoscere vincendo l’oro olimpico, è a Roma che Totti ha costruito tutta la sua carriera e le sue fortune. Vincendo meno dell’illustre antenato, anche perché nel calcio conta soprattutto la squadra con la quale giochi, ma vivendo un’emozione in più: ha vissuto da protagonista due millenni, assecondandone i cambiamenti e le differenze. Nel 1996, mentre Ali commuoveva il mondo da tedoforo ad Atlanta ricevendo proprio la medaglia d’oro romana che aveva gettato in un fiume per protesta, Totti conquistava il titolo europeo Under 21 scoprendo il gusto della visibilità internazionale che non sarebbe più venuta meno.
COINCIDENZE – E non è un caso che gli sia toccato di battere un rigore pesantissimo, decisivo per evitare alla Roma gli scomodi supplementari di un quarto di Coppa Italia, proprio nei giorni in cui un amico come Roger Federer festeggiava il trionfo agli Australian Open: si ripetono certe congiunture in cui i fenomeni si riappropriano del loro ruolo. Federer ha segnato la strada nel tennis, Valentino Rossi si prepara a seguire la sua in moto, Totti ha rimesso in ordine i conti mercoledì contro il Cesena. Non giocava titolare da un mese e mezzo, non segnava in Coppa Italia da 9 anni, non ha tremato neanche un po’ quando si è trattato di decidere: tranquillo Dzeko, tiro io. E’ subito tornato in mente un analogo rigore calciato nel 2006 al Mondiale contro l’Australia. O la va o la spacca, se non segni sei ai supplementari con un mattone sullo stomaco. «Se avessi sbagliato mi avrebbero distrutto» raccontò Totti all’epoca. Stavolta no, non l’avrebbero distrutto. Ma in molti, dietro a una virtuale pacca sulla spalla di empatia, si sarebbero sbizzarriti nelle sentenze più gelide: è ora che tu smetta, Francesco.
RITORNI – Lo pensavano già l’anno scorso, da Boston fino a Trigoria. Di questi tempi Totti non era Ali e nemmeno Kobe Bryant, a cui Pallotta lo paragonò per motivare l’opportunità del ritiro. E’ proprio di febbraio 2016 la decisione di Spalletti di allontanarlo da un altro ritiro, quello pre-partita contro il Palermo, dopo la dura intervista nella quale il capitano lamentava una mancanza di rispetto dell’allenatore. Quel ricordo rancido si è sciolto mercoledì in un abbraccio in campo tra i due ex contendenti, oggi legati e allineati verso l’obiettivo che condividono: vincere a Roma. Spalletti ha capito che l’infinità di Totti è una risorsa, non un nemico. Totti è di tutti. Come i miti. Come Ali.