Un fulmine che colpisce, come quello del Commando. Chi è che salendo quei gradini, mentre un pezzetto dopo l’altro si schiude uno scorcio sempre più ampio di prato con gli spalti intorno, non ripensa alla prima volta? Alla prima bocca spalancata. Al primo sguardo riempito di meraviglia dallo spettacolo di colori. Al momento esatto in cui gli occhi sono stati rapiti e si è capito che sarebbe stato eterno. È la prima immagine, consegna volontaria a un mondo che da quel punto in poi risulterà familiare, eppure sempre emozionante. Poi c’è il primo suono, perché ogni senso ne richiama un altro per permettere un tuffo perenne in quelle suggestioni che ripercorrono luoghi e momenti. È liturgia laica che diventa sacra, perché ci si sente parte di qualcosa di più grande rispetto a noi stessi.
E quel primordiale suono, che fa vibrare fino al più profondo dei meandri per non schiodare più da lì, non può che essere un coro. Migliaia di voci all’unisono e i brividi che pervadono ogni singola cellula. «Quando al ciel si alzeran le bandiere». Per tutti i nati prima degli Anni 90 quel suono ha un nome solo: Commando Ultrà Curva Sud. E per chi non ha avuto la fortuna di viverlo di persona, rappresenta il legame ancestrale col tifo. Sotto pelle, impossibile da recidere perché chiunque nasce romanista ce l’ha iscritto nel codice genetico. Il Cucs è parte del nostro DNA collettivo, esattamente come Italo Foschi e i pionieri di Testaccio, la grinta di Ferraris IV e De Rossi, la classe di Bernardini e Falcão, i gol di Amadei e Pruzzo, il talento sconfinato di Conti e Totti, il cuore di Rocca, la fascia eternamente al braccio di Di Bartolomei.
Come ogni singolo momento intriso di romanismo, portatore di gioie (sì, ne abbiamo avute, a partire dal giorno in cui ci siamo legati alla Roma) e delusioni, sorrisi e lacrime, esultanze sfrenate e struggenti malinconie. Il Cucs è la nostra impronta indelebile, quella impressa sul cemento ancora fresco del tifo e mai più cancellata. Perché a nessuno in nessun’altra parte del mondo è mai riuscito quello che il Commando ha immaginato. Realizzandolo. Quei ragazzi del ‘77 hanno dato corpo ai sogni di un popolo. Più rivoluzionari e visionari degli indiani metropolitani, più ribelli e destabilizzanti dei punk. Hanno fatto la cosa più semplice nel modo più dirompente: hanno unito tutti dietro l’Idea suprema. La Roma. La fantasia al potere in giallorosso. Un corpo unico fra la squadra e la sua gente, come mai era capitato prima.
E il mondo li ha osservati, invidiati, anche ammirati. Rivali compresi. Perché hanno rappresentato l’archetipo del supporto: coreografie inedite e maestose, sostegno incessante. E quell’indirizzo guidato sempre dai sentimenti, anche nei momenti più duri o terribili: il dopo-Paparelli, la finale di Coppa Campioni con Rocca in Curva, l’addio a Capitan Agostino, in campo e fuori… Un decennio sulle montagne russe emotive, prendendo fra le braccia una squadra sofferente e accompagnandola a un niente dal tetto d’Europa, per poi starle accanto anche nella fase discendente, come anima romanista comanda (Il «Che sarà sarà» col Bayern alla fine del ciclo d’oro è consegnato alla leggenda). Contestando con la necessaria durezza quando era il caso, mai distruggendo. Duri senza perdere la tenerezza.
Fino al 1987, quando l’arrivo di Manfredonia cambia tutto. La separazione, le liti, le due anime e una netta cesura col passato. Come se il calcio moderno avesse fatto irruzione in quel momento, tagliando i ponti in un colpo solo con i favolosi Anni 80 che ci avevano visto padroni; con l’originario modo di intendere il senso d’appartenenza dei giocatori alla maglia e viceversa; e con la culla del tifo. Una tripla recisione troppo profonda per non portare sconquassi anche nella Sud. Che avverte il colpo e si allontana a poco a poco dai picchi di eccellenza assoluta cui aveva abituato. Troppo scollamento per resistere, anche se certe punte di tifo restano notevoli. Nonostante sia cambiato tanto, troppo – anche materialmente – in uno stadio che nessuno sente più come proprio, abbrutito, imbruttito, raffreddato e devitalizzato dalla copertura, come dalla sostituzione del marmo bianco con gli orribili seggiolini dal discutibilissimo colore.
Il calcio cambia, il panorama del tifo anche, subentrano nuove generazioni. La Sud resta un modello, sia pure con stile, sigle e gruppi differenti rispetto al passato. Eppure il sigillo del Commando resta impresso a fuoco su ogni ragazzo che fa il suo ingresso in quello spicchio di stadio denso di passione. Si respira, si avverte, si sente addosso. E rimbomba nell’anima: «Dalla Curva si alzerà». Anche dopo i suoi primi 47 anni. Come la prima volta. Perché da quel 9 gennaio del 1977 è parte della nostra Storia. Buon compleanno.
FONTE: Il Romanista – F. Pastore