Altro che famiglia, questa sta diventando un’orgia di anime e corpi. Daniele nella fossa dei suoi leoni a sbranarsi di baci e abbracci. Una settimana fa l’afflato on air, lui che afferra l’efebico Paulo in volo, come fosse un bambino caduto dal quinto piano, senza nemmeno i guantoni da catcher, e i due che si ritrovano in un terzo tempo dell’amore, così bello e sinfonico oltre che sintonico che se lo provi cento volte in un set non ce la farai mai. L’altro ieri, a Monza, si replica più o meno con tutti, con la sciccheria dell’elogio al Turco. De Rossi è molto più che un bravo allenatore, De Rossi è un uomo ispirato.
Non so perché, anzi lo so benissimo, più passano i giorni e più alla sagoma del ragazzo di Ostia mi si sovrappone imperiosa quella di Jurgen Klopp, altro stritolatore patentato dei suoi pupilli quando fanno le imprese, ma anche quando non le fanno e si tratta di consolarli.
Daniele che mi diventa Jurgen. Un’allucinazione? No, una sovrapposizione carica di senso. Non è solo la fisicità debordante dei due, il modo di esultare, l’estroversione delle vene e delle budella, più sfacciata in Klopp (nel senso di una faccia capace di dilatarsi all’inverosimile). Non a caso spesso disegnato, il Cappellaio matto di Stoccarda, come un fumetto espressionista. Più disturbato, invece, sotteso e nevratile il soma di Daniele ha sempre qualcosa che lo deraglia, nell’inquietudine dello sguardo, qualcosa che gli arriva dal di dentro, una bufera permanente del cuore.
Empatici i due (come direbbe il vecchio Mou, precocemente finito, iniquamente ai suoi occhi, nella bacheca dei ricordi), ma di un’empatia naturale, come acqua di sorgente, che non cade da nessun cielo, non te lo fa pesare come fosse un lascito di Dio quando si concede ai comuni mortali. Daniele e Jurgen sono quello che sono. Leali e onesti fino all’improntitudine. Diffidano degli adulatori della prima e ultima ora.
FONTE: La Gazzetta dello Sport – G. Dotto