Nonostante 8 gol in 4 giorni, il prato dell’Olimpico non partorisce germogli ma funghi velenosi. A trecentosessantacinque giorni esatti dall’intervista alla Rai che un anno fa fece esplodere il caso Totti, Spalletti apre il fascicolo Totti-bis. Legando a filo doppio il proprio futuro a quello del capitano. «Io non voglio che Totti smetta con me. Se lo fanno smettere io vado via, pure se faccio il triplete»: le sue parole sono un tuono che gela la sala stampa cancellando dagli occhi di tutti, pure dei tifosi romanisti, il 4-1 al Torino, il 29° gol stagionale di Dzeko, la decima vittoria nelle ultime undici gare. E riavvolge indietro di un anno la storia della Roma. La città s’è già spaccata: per i maligni, l’allenatore che ha deciso di scappare dalla città, dalla stampa “antipatica”, ha trovato nell’addio al calcio del capitano l’alibi perfetto. La sua exit strategy. Per altri, è la conseguenza delle pressioni tottiste, di chi più che per la squadra tifa per il suo capitano. Estenuando chi – come un allenatore – deve pensare non a uno ma a tutti.
La storia s’annoda allora come un serpente che mangia se stesso. Totti sta pensando seriamente di smettere, per la prima volta in 40 anni. Ma se lo facesse, la Roma perderebbe pure il suo tecnico. Che continua a mettere paletti per la sua permanenza. E in poche ore passa da «Resto se vinco» a «Non resto nemmeno se vinco, se Totti smette». Una manetta sul futuro. Il contratto in scadenza del capitano gli ronza in testa, ne parla da mesi e in una volta esce fuori senza che nemmeno gliene chiedano. «Con il solo Totti non si vince – dice Spalletti – la soluzione non è Totti ma averne 18 o 20 come lui». Sembra quasi mandare un messaggio alla società, come quando dice: «Se lo fanno smettere…».
Ma cos’è che fa esplodere l’umore di Spalletti intorno al nome del suo capitano dopo una settimana come questa, con gli ottavi d’Europa League ipotecati in trasferta e l’insidioso Torino liquidato in 17 minuti? Fingendo di dimenticare il passato recentissimo, gli attacchi reciproci del campionato scorso, si può solo provare a ipotizzarlo. La battuta di Totti al momento di entrare in campo («Mancano sette minuti… ») non basta di certo. Né il tempo che aveva impiegato a svestirsi, poco apprezzato da Spalletti che gli aveva rivolto un tiepido «fai in fretta». Forse i fischi del pubblico alla squadra che giocava il pallone, anziché metterlo fuori per favorire l’ingresso del numero 10 che aspettava a bordocampo. Quasi un prologo di cosa potrebbe succedere a fine stagione: con l’addio al calcio del capitano, quanti in questa città spezzata punterebbero l’indice contro il tecnico che lo tiene in panchina?
Non è un caso che Spalletti ribadisca ogni volta che ne ha l’occasione che per restare vuole un titolo: vincere, in una città come Roma, garantisce credito inesauribile e la certezza di poter lavorare senza essere discusso settimanalmente. E’ capitato a Capello dopo lo scudetto. E a nessun altro. Spalletti allora lo ribadisce: «O vinci o hai perso. E se si perde si va a casa…». Chiarissimo: eppure il futuro sembra sempre più opaco.