Luciano Spalletti parla, scatta, sbotta, brontola, tira fuori questioni che non c’entrano niente (Totti, per due volte di fila), rivela (che scoop…) che i giornalisti romani non gli stanno simpatici (chi, tutti, alcuni, tanti, pochi? Come al solito si generalizza) come se esserlo sia una condizione necessaria per campare meglio o come se la controparte affermasse che un allenatore per vincere debba essere prima di tutto simpatico. A Roma l’ultimo che ha vinto uno scudetto, non si offenderà, non era il massimo della simpatia pubblica, ma chi se ne importa. Si vada oltre, si crei lo stile Roma, come aveva detto un anno fa.
LA VERITÀ NASCOSTA – Dice tante cose, Lucio, ma non quella che tutti i tifosi romanisti (compresa anche la società Roma), o una grossa parte di loro, vorrebbero sapere: firma o non firma, resta o non resta, va alla Juve, all’Inter, al Milan, all’Arsenal. Il contratto di Spalletti è importante come lo era quello di Totti un anno fa. «Perché non parlate del contratto di Totti?», chiedeva il tecnico dopo Roma-Torino. Semplice: perché oggi interessa più il suo. Ma lui nicchia e tira in ballo proprio il capitano, che gioca cinque minuti ogni tre partite e magari gli girano pure, visto che qualche minuto in più se lo sarebbe aspettato. Parlare di Totti significa spostare l’attenzione, fare una finta a destra e scattare a sinistra, con non poco imbarazzo della società, che aspetta da un po’ risposte positive.
Non parlarne significa voler nascondere qualcosa, la classica via di fuga: perché una volta è «resto se vinco», un’altra è «non resto nemmeno se faccio il triplete e l’importante è che si faccia il contratto al capitano». Perché il capitano, la penna, i giocatori, il tacco, la punta, etc etc. Caro Spalletti, qual è il giochino? Se il giochino è me ne vado, perché qui arrivo solo secondo, può non essere facile da accettare ma è una realtà, cruda, una scelta professionale, che fa male, ma va accettata. Se il giochino è «o Totti o io», sembra più una scusa, visto che il capitano non è, minuti alla mano, un calciatore che condiziona le sue scelte. Se infine siamo al, «non sopporto più Totti, nemmeno l’idea che faccia il dirigente», allora lo dica apertamente e la società farà una scelta. Ma tutte queste parole, dette così, che senso hanno? Il tifoso medio oggi è pessimista sul futuro del tecnico, così anche il giornalista antipatico. E’ ciò che certi suoi discorsi hanno generato. E non si parla, o lo si fa poco, dei grandi numeri della Roma, che ancora non ha vinto nulla, ma fa sognare.
ONORE E TRADIMENTI – E’ chiaro, dietro si nasconde altro. «Non mi state simpatici, io sono tornato per l’ambiente, per i tifosi, ho un patto d’amore con la gente», ha detto domenica sera Spalletti. Se è un patto d’onore allora sarà sicuramente rispettato, se così non fosse, cosa dobbiamo pensare che Lucio entrerà nella lunga lista dei traditori? No, non lo farebbe mai. E se andasse alla Juve sarebbe un tradimento, magari consumato per colpa di Totti. Siamo al teatro dell’assurdo. Per quanto ci riguarda, questi giochini – termine che piace tanto all’allenatore della Roma – sono un po’ tediosi. Dieci anni fa avevamo conosciuto uno Spalletti diverso: bravissimo allenatore e eccezionale comunicatore.
Oggi lo abbiamo ritrovato addirittura migliorato come allenatore, perché ha smesso di creare belle squadre ed è passato alla realizzazione di grandi squadre, ma da un punto di vista delle esternazioni, qualcosa non quadra, forse qui ha fatto un passo indietro. Se non due. Ma tanto siamo alle solite: le vittorie non arriveranno né perché lui comunica bene (o male) né perché noi siamo simpatici (o antipatici), ma solo con il lavoro e con i giocatori forti. Ora Spalletti ha il consenso popolare perché vince le partite, non perché se la prende con l’ambiente o con Totti. Un domani chissà. Specie se andrà via e nessuno avrà capito il vero motivo. I bookies intanto danno le quote: il tecnico alla Juve a 3,00, il ritiro del capitano si gioca a 2,00.