Robberto Baggio, Peppe Guardiola e Francesco. Se Carlo Mazzone, 80 anni domani, vi fa questi tre nomi, siete rovinati. Non vi resta che mandare una vostra foto alla Sciarelli e sperare in un immediato avvistamento per tornare a casa prima che sia troppo tardi. Perché nonostante le sue 1076 (sì, 1076!!!) panchine in tutte le categorie, e le centinaia di calciatori avuti in rosa dalla fine degli Anni Sessanta al 2006, nel cuore di Mazzone ci sono soltanto quei tre. E se comincia a parlare di Baggio, Guardiola e Totti, Er Magara vi trascinerà in un mondo magico, fatto di racconti di uomini fantastici, di giocatori eccezionali, di avventure a colori e di storie imparagonabili anche alla favole più belle. E voi, ve lo assicuriamo, non avrete assolutamente voglia di scappare. Anzi, starete lì ad ascoltarlo, in silenzio. E, appena smette di raccontare, a pregarlo di ricominciare con un altro episodio. Ma non vi deve mai venire in mente di chiedergli: Carlo, chi era il più forte? Lui vi guarderà dritto negli occhi e, come ha sempre fatto, vi risponderà: famme ‘na cortesia, nun me fa’sta domanda…
VITA DI TRIGORIA – A Roma, Mazzone ha vissuto tre anni belli e impossibili, salutando con pochi risultati ma con tanti ricordi per chi ha avuto la possibilità (fortuna?) di viverlo quotidianamente. La sua avventura a Trigoria, ad esempio, ha lasciato in eredità ai cronisti che in quegli anni “facevano il campo” aneddoti unici. Indimenticabili. A noi, che eravamo in quel gruppo, piace ricordarne uno. E, lo diciamo subito,non si tratta del tanto reclamizzato “A Totti vatte a fa’ la doccia” (quel giorno a Trigoria eravamo solo in tre, ma piano piano stiamo arrivando a trecento…). Noi vi raccontiamo di quando Il Messaggero pubblicò un’intervista di Zdenek Zeman, allenatore della Lazio che non gli stava simpatico, nella quale il boemo criticava pesantemente Mazzone, a suo dire allenatore vecchio, sorpassato sia da un punto di vista tecnico che tattico. Uno assolutamente non in linea con il calcio degli Anni Novanta. Apriti cielo… In quel periodo, al Bernardini non esisteva una vera sala-stampa, ma nella casetta accanto al cancellone verde d’ingresso c’era uno stanzone, con tre cabine telefoniche, alcune sedie, un divano e un tavolino,che veniva usato per fare due chiacchiere con il mister. Mazzone, letto il Messaggero e l’intervista di Zeman, si presenta di fronte ai tre, quattro giornalisti in attesa di una sua dichiarazione. Carlo guarda in faccia il sottoscritto e fa: “Posso parlare con De Bari?” De Bari era l’autore dell’intervista. “Ci provo, Carlo. Aspetta un minuto”. Entriamo nella cabina, gettone, componiamo il numero del giornale, risponde De Bari. “Gabriele, c’è Mazzone che ti vuole parlare: posso passartelo?”. “Certo”. E il telefono finisce nelle mani di Mazzone, non esattamente calmo e tranquillo. “Ciao Debbari, so’ Mazzone… Senti ‘na cosa, ma tu me confermi che Zemà ha detto quelle cose? Ha detto proprio così? Quindi me lo confermi? Uhm…. Vabbè, grazie. Scusame tanto eh…”. Attacca il telefono. Si volta verso i cronisti e, con lo sguardo truce, fa: “Metteteve seduti che oggi ve faccio scrive”. E aprì il rubinetto. Un fiume di parole. Mezz’ora di riflessioni ad alta voce, in assoluta libertà e in perfetto romanesco. Il romanesco di un trasteverino incazzato. Avete presente? La frase più tenera: “Quando io allenavo in Serie A, ‘sto scienziato stava ancora a gioca’ a pallamano in Cecoslovacchia….“. Auguri.