Ostia meglio di Copacabana?
“Per me si, come ogni città o quartiere che segna l’infanzia di ognuno. Il paragone è un po’ forte però per me questi (l’intervista si svolge sulle spiagge di Ostia, ndr) sono posti che non cambierei neanche per le spiagge più belle del mondo”.
Qui dietro c’è la Pineta, vieni ancora a correrci prima di iniziare le preparazioni? “Un po’ di meno, quando sei vecchio tendi a risparmiarti all’inizio, invece da giovane ti spari subito i primi botti. Andavo a correre lì, era un posto bellissimo prima, poi gli hanno dato fuoco purtroppo. Tutti i ragazzi di Ostia ci andavano a correre, anche dalle zone vicine”.
La strada è un allenamento naturale… “A volte viene utilizzato questi termini tipo gli insegnamenti della strada e si fa confusione perché anche in altri luoghi si impara molto. Però è importante il sapersi adattare ai ragazzi del proprio quartiere che magari hanno vite diametralmente opposte alle tue, poi ti ritrovi nei vari parchi di Ostia. Giocavi con le porte create dagli zaini, adesso i parchi sono sempre più belli. Penso che anche adesso, nonostante le Playstation e i telefoni, quando passo davanti ai parchi vedo sempre i bambini. Mi fa piacere, mi ricorda quello che ho fatto io. Poi ho iniziato la carriera nelle giovanili. Dà tanto ma leva anche tempo per giocare in modo spensierato”.
È sempre stato detto che avevi un fisico esile, hai dovuto fare un passaggio dal punto di vista della struttura… “Ero un bambino tifoso, neanche giocavo. Non ero neanche un calciatore delle scuole calcio. Ero l’opposto esatto di quello che sono ora, ero completamente diverso anche in virtù del mio fisico longilineo, ero magro, non ero neanche questo cuor di leone che amava contrasti e faceva zuffa”.
Quando giocavi attaccante giocavi ludicamente? “Ero un cacasotto. Ero uno che l’aggressività l’ha sviluppata negli anni, da ragazzini si tende a essere bambacioni. Il calcio giovanile qui a Roma riserva realtà dove c’è da mettere il piede e io non amavo la partita frizzantina, mi piaceva fare la giocata, ogni tanto mi isolavo a sinistra”.
È vera la storia della chiamata a 10 anni della Roma? Sì è parlato di rinuncia, io dico di saper scegliere la sfida giusta, quella di convivere con gli amici… “A queste rinunce, che sono simili a quelle che mi hanno fatto rinunciare ad altro, si fa un po’ di confusione. Si enfatizza il lato altruista, come se l’avessi fatto per altri. Semplicemente, stavo bene coi miei amichetti. Andare in un posto nuovo mi metteva paura, forse. A parte il fatto di dovermi rapportare con giocatori più bravi, è simile a quello che ho fatto poi. Ho scelto di rimanere coi miei amici, che possono essere i miei compagni alla Roma, la famiglia, la maglia, la tifoseria”.
Lo spogliatoio sa concedere i gradi anche ai ragazzi giovani, se lo meritano… “È la base, quello che lasci nei rapporti umani che hai creato negli anni con un calciatore, con l’allenatore, con chi lavora a Trigoria. Il vero valore di un giocatore, di un uomo, lo danno i racconti che fanno i propri compagni anche 10-15 anni dopo che hai smesso. I tifosi non sono meno importanti, ma hanno una percezione limitata, vedono i 90 minuti, le interviste. Ma quello che fai nello spogliatoio, quando un compagno ha bisogno, quando l’allenatore ti mette in difficoltà non si dimentica”.
Il mare accentua le emozioni, chi è nato al mare vive questo rapporto come uno yo-yo virtuale. Ti è capitato di discutere dei problemi della squadra? “Qui, in maniera intima, nel senso di sfogo, mai. Ho portato i compagni a vedere questo posto, a mangiarci. Lo vive in modo intimo chi lo ha vissuto sempre, come casa, come alternativa alla propria casa, alla scuola. Quando non andavamo a scuola, o c’era l’assemblea, si veniva qui. C’era quello che veniva col pallone, quello col surf, questo posto non regala la stessa intimità a chi viene da fuori. Non è mai stato un punto di ritrovo. Non si sono costruite imprese partendo da qua, anche perché non ne ricordo molte: sarebbe stato il posto sbagliato (ride, ndr)”.
Si dice che non si abita il mare, lo si attraversa… “Non l’ho mai attraversato, ho avuto giornate di totale simbiosi col mare, anche col tempo meno clemente. Se vado troppo oltre mi fa anche un po’ paura”.
Ci sono stati tanti rientri, a volte in gloria e altre amari… “Sì, il mare esalta tutto questo. La gioia di vivere una giornata post vittoria, una giornata positiva, il mare ti rilassa e ti esalta. Ma in giornate come queste, quando sei triste, non è vero che lenisce il dolore. Quando sei nervoso pensi sempre a quello, non aiuta particolarmente. Meglio altro”.
Tu ricordi molto la generazione degli anni ’80… “Il calcio ora lascia meno spazio all’immaginazione, al sogno. Conosci tutti, numeri di scarpa, taglie di magliette. Quello è un calcio che riguardo ad alcuni interpreti ha segnato la mia vita, non so quanto la mia evoluzione da calciatore. Io ero diverso da quel che sono ora”.
Hai fatto il raccattapalle, la terra di mezzo tra il tifo e l’essere giocatore… “Era una Roma più debole, i risultati che otteneva erano inferiori. Ma era emozionante in egual maniera, la Curva era qualcosa di incredibile, era un continuo spettacolo. Ce l’avevi avanti e dietro, eri indeciso su come guardare. Io ero entusiasta, il fine settimana mi dava la partita della domenica e poi il fare il raccattapalle: quello non poteva togliermelo nessuno”.
Hai avuto come idolo Rudi Völler. Hai confessato che lui è stato il tuo idolo dopo aver lasciato la Roma, come a non voler passare per ruffiano… “È un meccanismo al quale stavo attento prima. Ero terrorizzato all’idea di passare da ruffiano. C’era la caccia all’uomo a chi potesse fare la spia, l’ambiente era più gretto. Ora ho 34 anni, ho capito che puoi dire quello che ti pare senza esagerare, puoi avere un rapporto col giornalista e viceversa, puoi ignorarlo e fare la spiata poi. Vivo tutto in modo più naturale, vivo meglio. Riguardo Völler era un idolo, mi ero fatto cucire il 9 sulla maglia della Roma, prima non vendevano i numeri. Non avevo un amore tecnico, consapevole, era un amore per il numero 9 che ha anche indossato la fascia di capitano, insieme a Giannini erano quelli che in quell’età mi facevano morire”.
Sui tifosi… “Credo siano cambiati, sono più maturi, competenti, ma meno viscerali. Prima il tifoso era inconscio, a volte folle, era anche quella la bellezza di avere questa passione, di difenderla contro tutto e tutti, di difendere il giocatore che sbagliava come un figlio. Ora si tifa per la propria idea, per il proprio giocatore, il proprio allenatore, la propria dirigenza. Ha smorzato la passione e ha creato fratture e divisioni”.
Hai sempre giocato tifando. L’entusiasmo sui gol è una cosa incredibile. La tua faccia cambia… “Io credo di essere fortunato, non ho mai dovuto fingere, dimostrare qualcosa che non sentissi fortemente. Ho sentito un amore grande che mi porterò dietro sempre, non è che se sto a casa sul divano la vivo come in campo. Ero contento perché segnava la Roma, ma perché io ero parte di qualcosa della Roma, anche in panchina o in tribuna. Oltre a essere la mia squadra del cuore è la mia squadra, mi rende protagonista nel bene e nel male. Quando le cose vanno bene ho una felicità incredibile e anche solo giocare con la squadra che ami è una cosa unica. Forse lo capirò più avanti, ora lo divido tra gioia e rotture, perché dà anche stress e pressione. Più avanti mi renderò conto che è stato un viaggio incredibile”.
In quegli anni c’è stata anche la scoperta del ruolo. L’evoluzione di un giocatore che giocava in modo selvaggio, collocato in una zona strategica del campo. Il 25 ottobre 2000 è la tua prima da centrocampista centrale con Bencivenga. Al centro del gioco sei arrivato quel giorno… “Con la sua guida, mister Bencivenga è conosciutissimo. Questa sua trasformazione è stata fondamentale. Mi diceva che o mi svegliavo o mi svegliavo, che non avrei giocato a calcio se non avessi fatto quel ruolo. Non potevo fare l’attaccante per lui, aveva ragione”.
Quello del regista è un compito, non un ruolo… “Si può essere registi in qualsiasi parte del campo, anche in porta. Anche lui risolve un’uscita. È normale che al centro del campo tocchi più palloni, ma a catalizzare il gioco può essere anche uno come Perotti o il terzino. Se hai uno che esce da quella situazione crea la giocata, poi è normale che servono altri compagni. È superata l’idea che il regista sia Maradona e gli altri corrono. Com’è superata l’idea che l’attaccante debba solo far gol”.
Hai mai sentito parlare di “salida lavolpiana”? “No, aiutami”.
È il movimento del centrocampista centrale in mezzo ai due difensori… “Ce l’ho sempre avuta, quando è stata riconosciuta come nostra era farina del sacco di Luis Enrique. Eravamo in ritiro, mi mise là e mi fece vedere i video del Barcellona B, mi disse che avrei dovuto fare così. Ho giocato alcune partite da difensore centrale e quello è l’antipasto da difensore centrale”.
Tu leggi prima di imbucare… “È questione di conoscenza, di qualità tecniche e compagni che si smarcano. Guardiola ce le aveva dentro, per la sua cultura, ha avuto Cruijff come allenatore. Noi l’abbiamo ammazzato, si è trovato in un posto in cui il calcio era un’altra cosa. Era diverso. Lui rimaneva sconcertato dal nostro vincere il contrasto e ripartire, cambiare gioco. Lui predicava calma, non voleva che ci girassimo col pallone. Lui si metteva lì, si levava gli scarpini e si prendeva del tempo con me per dirmi cosa sbagliavo. Un po’ lo faceva perché mi voleva bene, un po’ perché era il suo riscaldamento. Stava diventando un allenatore vero. Ho ritrovato quel calcio un po’ in Luis Enrique, un calcio pensato: non che io sia un fenomeno, ma mi trovo meglio. Forse perché non ho il lancio millimetrico di Pirlo o la falcata di Pogba o la corsa di Nainggolan. Hai bisogno dei compagni che si muovono e l’allenatore è determinante. Negli ultimi anni mi rendo conto che la percentuale di importanza che gli do sale continuamente”.
Il campione è un moltiplicatore di onori e oneri… “Ci sono i ruoli, c’è il ragazzo più timido, introverso, che magari non ha voglia di rotture ed è anche giusto che si prenda uno 0-0 quando va a parlare. Altre persone sono nate per non fare mai 0-0, per essere sempre in ascolto, in maniera positiva, senza essere completamente fuori. Non devi essere un campione con numeri incredibili per essere importante in spogliatoio o per la tifoseria”.
Castel Sant’Angelo, lì c’è la tua scuola… “Portiamo la bambina a scuola, ha le amiche. È pieno centro di Roma, ma lo viviamo con serenità incredibile. All’inizio avevo paura, con tanti turisti stranieri sono ancora più tranquillo. Un quartiere a misura d’uomo, sto benissimo”.
Tu e Sarah amate sdoppiarvi tra Ostia e Roma… “Ultimamente stiamo più a Roma, ma Ostia è una tappa fissa. Un po’ perché abbiamo i parenti, un po’ perché è il posto dove abbiamo iniziato a vivere insieme e ci sentiamo a casa”.
Meglio parlare qui che in uno studio… “Lo faccio una volta all’anno, sto più comodo”.
Parlavamo della tua capacità di essere già vecchio calcisticamente. Com’è il tuo rapporto con i giovani? “Dovremmo sentire loro, ma io credo buono. Mi riesco a rapportare bene anche con le generazioni più recenti che sono diverse da me. Hanno tutti un atteggiamento diverso, non sbagliato. Sono passati 15 anni da quando ho iniziato io, non c’era Facebook, non c’erano i social network, non era così netto il contatto con il fan. È normale che siano più spigliati, attenti al mondo all’esterno. Pensavamo ad emergere facendo calcio, non intrattenendo”.
Tu con Zeman molte volte non giocavi, non gli chiedevi perché? “No, la trovo una cosa assurda. A prescindere da Zeman, penso che non ci sia allenatore più difficile e che non ci sia allenatore che non voglia vincere. Se Zeman o chiunque altro non fa giocare qualcuno è perché pensa che ci sia un altro meglio. Se parti da quello vedi tutto in maniera diversa. Il fatto che papà faccia l’allenatore mi ha aiutato”.
L’allenatore non fa niente per farsi del male… “Ed è solo. Puoi perdere e fare una grande partita, sei meno colpito. È diverso. Puoi essere infortunato, squalificato. Lui non stacca mai, è sempre bastonato, specie qui”.
Raramente i giocatori seguono le analisi video, a te piace tantissimo… “Ogni tanto mi annoio anch’io, mi cala la palpebra e da giovane lo sopportavo di meno. Ora ho iniziato a capire che è fondamentale, non solo nel calcio. Un calciatore che ha l’insegnante giusto che gli dice le cose giuste può trarre vantaggi esponenziali, da tutto. È una cosa formidabile, se ti addormenti dopo 5 minuti… sono uno dei pochi ad appassionarsi ai video, ci devi mettere la testa giusta, accettando anche un po’ di noia”.
Il video toglie alibi… “Non tutti lo accettano, il calcio è vario. L’allenatore decide, possiamo vederlo in mille maniere, non è facile che i compagni siano d’accordo. Lo sai subito quando hai sbagliato, prima che il mister blocchi. È importante per le partite successive”.
Vorrei parlare di due dame. Una è quasi irraggiungibile, si fa vedere, è sfuggente, non ti si concede. L’altra è più per tutti. Parlo della vittoria e della sconfitta. Non c’è tanta differenza nel percorso… “Partiamo dalla vittoria. Negli anni mi sono reso conto che non è semplice raggiungerla, non l’ho raggiunta nel più dei casi. È per le persone, per le squadre, per i gruppi eccezionali. Facessi il tennista avrei più facile il confronto, capirei meglio cosa cambiare. Secondo me invece c’è un grande limbo, è quello in cui abbiamo navigato per tutta la mia carriera. Vincere una partita è un conto, vincere un campionato è un altro. Per arrivare secondo 7, 8, 10 volte devi aver vinto tante partite e lavorato bene, seriamente, trovando qualcuno più bravo, che ha lavorato meglio. Ma vinci tante partite, ne perdi poche, significa che hai la mentalità giusta e che sei un professionista, un vincente. Purtroppo non sei il vincitore e questo ti distrugge. Non arrivare primo è una sconfitta e la sconfitta è la cosa più brutta che c’è”.
Ma non c’è tanta distanza. Però se c’è sempre ci sono dei motivi, seppur difficili da presentarli… “Per quel che riguarda la Roma c’è tanta differenza tra la vittoria e il fallimento. Non mi sento un vincente, ma sicuro non uno sconfitto o un fallito. A parte qualche stagione che è stata un fallimento, ho fatto il mio lavoro nel modo giusto. Una squadra che parte troppo più forte e non vince fallisce, a una squadra come la Roma che arriva seconda è mancato qualcosa, non alziamo trofei immaginari, ma sicuramente ha fatto anche cose buone. Va valutato anche questo, è normale che tutti vogliamo vincere e fregiarci di un ricordo memorabile, ma dobbiamo analizzare in modo freddo le stagioni e le potenzialità”.
Sul comprendere il calcio… “Non parlo di comprendere dal di dentro, anche voi che analizzate potete veicolare la stagione di uno. Come valuti la stagione della Roma piuttosto che un’altra?”.
Noi viviamo in una terra di mezzo. Dobbiamo essere bravi a tradurre il messaggio vostro e presentarlo a chi ci ascolta. Va fatto per gli altri. Tu ce l’hai dentro anche se non fai questo lavoro. Hai un modo di parlare che dice. Non devi mai stare davanti all’evento, l’ego non c’entra niente… “Il discorso vostro, di comunicazione, in generale, parte da un presupposto importante. L’essere imparziali. Parli di qualcosa che tocca nel cuore la gente, più del calcio non tocca niente. Devi essere preparato per essere inattaccabile. Se dici la verità, al di là delle sfumature, stai valutando due squadre che giocano contro. Due mondi che giocano contro, che guardano la stessa trasmissione da punti di vista diametralmente opposto. Se non dici le cose come stanno, da essere inattaccabile, crei un piccolo terremoto e non fai bene il tuo lavoro”.
Sei stato per una decina d’anni uno dei 3-4-5 centrocampisti più ricercati d’Europa. Ti ha portato tanti guadagni, meritati, sudati e ottenuti. Che valore dai al denaro? “È importante per chiunque. Scindo il valore di un contratto, importantissimo, quando si parla del contratto si parla del contratto, come tutte le cose le faccio al 100%. Credo di essere stato l’unico nella storia della Roma a dire che firmavo per avere più soldi, male non fa. Poi però c’è altro, non aver mai chiesto un aumento, non aver mai cercato sponde da squadre, procuratori e sponsor. Sono stato molto leale. Poi c’è il valore che diamo quotidianamente ai soldi. Ho 34 anni e una famiglia numerosa, facciamo una bella vita, mi tolgo i miei sfizi, ai figli non mancherà nulla e anche ai loro nipoti. Ma si può vivere anche con uno stipendio diverso, tra pochi anni le telecamere si spengono, c’è da essere consapevoli che posso smettere di guadagnare. Non ho sentito pochi colleghi in difficoltà, anche dopo aver guadagnato cifre spaventose. Le persone che frequenti campano di stipendio, facendo una piccola battaglia con la vita. Devi saperti comportare, perché sei allo stesso piano a livello umano e perché si può vivere bene con una vita sobria”.
Vedo in te una nuova luce, hai una serenità che contagia e una famiglia meravigliosa… “Faccio tutto al 100% in campo e fuori, ho avuto due matrimoni. Il primo è stato un fallimento, ma non mi sento di dire che ho due famiglie. Mi ha dato una delle cose più importanti che ho, che è Gaia. Può essere considerato un fallimento matrimoniale, quello è figlio dell’età. Come maturi a 34 anni sul campo o in altre cose, a 20 anni non puoi essere maturo. Ci sono persone che lo sono di più, che sono più furbe, che sanno stare sole più tempo, lo consiglierei al mio figlio maschio e anche alle femmine, divertirsi è bipartisan. A quell’età è difficile caricarsi di impegni, a 34 anni è grave chi non si sa gestire. Chi ha fatto piccoli passi falsi a 22-23 anni in una cosa importante come la famiglia un po’ lo giustifico”.
Alcuni ragazzi che fanno il nostro lavoro possono arrivare a forme depressive… “Ho conosciuto chi ha avuto momenti difficili dopo e durante. Smettere è un incentivo a essere ancora più triste. Alcune volte il calcio te lo tolgono in maniera dura, devi riuscire a farne a meno, smettere succede a tutti. È importante smettere di giocare prima di smettere di giocare bene. Inizierà un processo complicatissimo, mio padre ha giocato a calcio e ha detto che è stato difficile. Potresti anche uscirne e vivere bene comunque, non ho affrontato in modo tangibile il discorso”.
Quanto spingersi oltre? Cosa determinerà la campana dell’ultimo giro? “Smettere, prima di smettere di giocare bene. È un discorso anche di orgoglio, di amor proprio e te ne accorgi nel quotidiano, te ne accorgi anche coi compagni. Se hai persone che ti vogliono bene te lo dicono. Un calo è normale, il fisico è quello che è. Se non sei più in grado di fare calcio in una certa maniera, con aggressività, lucidità, ritmo, entusiasmo. Quando sono in vacanza mi piace viaggiare, ma dopo 12-13 giorni c’è il richiamo. Ti fa capire che sei vivo, quello potrebbe restare anche quando non sei più in grado ma è una cosa che sento meno di prima. Sento meno la necessità di fare calcio 24 ore su 24, nel giorno libero non leggo siti. Ma la sera, prima di addormentarmi, è probabile che dopo aver pensato alla famiglia penso alla domenica, con chi giochiamo noi e chi ci è vicini in classifica. A luglio sono 34, il conto arriverà, tra poco”.
Spero di strapparti una promessa… “Non so che dirti”.
Mi chiedevo. Ma dove sentiremo il canto del Cigno di Daniele De Rossi? Sarai il capitano della Roma l’anno prossimo? “Non lo so. Penso che non sia neanche così tanto importante. Penso che ci siano stati momenti, stagioni, in cui era difficile restare, legarsi a questa maglia. È una storia d’amore durata talmente tanto che ridurla a finire un anno prima o un anno dopo, in questa città o un’altra, sarebbe sbagliato”.
Ho più di qualche dubbio. Non trasmetti sicurezza… “Non sto meditando cose strane. È un momento in cui non ne sto parlando, ma ci sto pensando tanto. Sia a casa, che tra me e me, molte ore al giorno. Qualcosa capirò e comunque sia c’è un rapporto stretto, d’amore, che non si interromperà. Queste parole possono far pensare a un commiato, ma le sto dicendo a prescindere. Non sarebbe una tragedia per me, ho dato tanto e ricevuto tantissimo”.
Nelle tue valutazioni c’è anche il fatto che non devi più niente a nessuno… “Dovrò sempre tanto a tutti quanti qui a Roma, mi è stato dato tanto affetto. Nell’ottica di una vita lunga, di una carriera da calciatore, un anno in più o in meno non fa la differenza. Magari l’anno prossimo è quello buono per vincere e me ne sono andato, ma sono storie di campo che non hanno a che fare con la scelta di legarsi a vita”.
Sul fare l’allenatore… “L’allenatore è il lavoro più bello, ma anche il più brutto e duro. Immagino che una moglie che ha un marito allenatore debba condividere gioie, frustrazioni, lavori. Se penso io così tante ore al calcio, figuriamoci un allenatore. Bisogna capire se avrò io la forza e se avrò quella di sottoporre alla mia famiglia una cosa del genere”.
Allenatore della Roma? “Sarebbe una bella storia. Vincere da allenatore dopo non aver vinto nulla”.