Dicono che qui non bastano neppure le certezze, figuriamoci gli atti di fede. Eusebio Luca Di Francesco è un rebus sin dal nome e dovreste vedere il suo codice fiscale. A Roma hanno sbagliato i tempi tutti quelli che sono arrivati per esplorare ed essere esplorati, allievi, vecchi maestri e persino maestri vecchi. Per vincere ci vogliono i Liedholm e i Capello, Luis Enrique è finito essiccato come uno yogurt nel microonde, il cupo Rudi Garcia è stato rosicchiato lentamente fino al nocciolo, poi sputato via. E altre cose del genere. Come se Di Francesco non avesse avuto a che fare con Giorgio Squinzi che nella chimica e nel ciclismo si è coperto di gloria e a un certo punto si era anche messo in testa di essere in gara per lo scudetto. Come se fosse facile tenere a bada Domenico Berardi fino a fargli dire che dove va Di Francesco va anche lui. Magari non succede, mettiamo qualche limite ai piani segreti dei tifosi della Roma.
IL GENIO – Come se la capitale d’Italia poi fosse così differente da Milano, che a suo tempo decise di abbandonare le certezze – anche perché le certezze s’erano allontanate per conto loro – e di darsi a un livornese dalla lingua sbrigliata che a Cagliari avevano appena esonerato. Max Allegri era stato chiamato a mettere il naso nelle faccende rossonere con un tale entusiasmo che Berlusconi borbottava: «Potrei fare io l’allenatore». Secondo molti ci pensava davvero. Allegri com’è noto a chiunque adesso ha vinto tre scudetti e tre Coppe Italia di fila con la Juventus, ha partecipato a una finale di Champions League e ben presto ne assaggerà un’altra, con migliori possibilità di successo rispetto alla prima volta, è stato scelto in due occasioni come miglior allenatore d’Italia dagli altri tecnici, in tre dai giocatori e in una dai giornalisti. Lo considerano, con la misura caratteristica del mondo del calcio, un genio nella redistribuzione degli uomini in ruoli che non hanno mai provato e neppure mai pensato: Mandzukic terzino, Pjanic regista, Dybala esterno. Fa agli altri quello che gli altri hanno fatto a lui, cominciando da Galeone che lo prese trequartista in terza serie e lo mise mezzala senza stare ad ascoltare le sue rimostranze piene di c aspirate. Giù dal Cagliari, su al Milan e scudetto subito, dopo sette anni di poco o niente nonostante Berlusconi non avesse ancora preso a vendere i pilastri della squadra. Era il 2011 e lì Allegri rimase fino al 2014, perdendo senza battere palpebra Nesta e Ibrahimovic e Thiago Silva. Lo tacciarono di aziendalismo e lui niente, lo implorò la Roma e lui niente. Dovettero cacciarlo. Non preoccupatevi, succede a tutti gli allenatori che siano bravi o meno.
GLI ESEMPI – Non è poi forzato immaginare che alla Roma s’ispirino a quella puntata rischiosa e fruttuosa, con l’input ulteriore del passato giallorosso del Di Francesco, da centrocampista solido e veloce per quattro anni con 101 partite e 14 gol, da direttore sportivo per una stagione esatta, nel 2005-06 quando Luciano Spalletti allenava e Franco Sensi ancora c’era. Passano due anni di età tra Allegri ed Eusebio ma ben cinque di mestiere di allenatore. Lo scudetto che Max a quel punto della sua vita aveva già conquistato, Di Francesco lo ha avuto da giocatore nel 2001. E lì ha imparato, racconta, come si fa a unire la gente a testuggine, a farla lavorare per un unico scopo, a venire a patti con Roma che t’incanta, ti distrae e ti disperde. Non lo ha imparato da Totti, bensì da Gabriel Batistuta. «Che entrava nello spogliatoio e urlava: io voglio vincere, voi volete vincere». Appena arrivato a Roma trovò Zdenek Zeman, il suo modello rielaborato con destrezza. Vide Totti mutare, trasformato da ragazzino del tocco in più ad artista della verticalizzazione folgorante. Merito dei suoi piedi e della testa di Zeman, pensò. Vide quella squadra crescere, unirsi, espandersi. E vincere, sì. Ma solo dopo. Quando venne Capello. E’ questa ineluttabilità delle certezze che Di Francesco vuole esorcizzare, in nome di un calcio sognato.