Eusebio Di Francesco, in un’intervista uscita su Il Messaggero il 9 febbraio del 2016, ci raccontò il suo calcio «colto e libero». Era un po’ arrabbiato per la sconfitta subita due giorni prima contro la Roma, e della Roma non voleva parlare, perché il suo nome spesso veniva accostato ai giallorossi e questo lo infastidiva. “Colto” perché Eusebio faceva riferimento all’importanza della cultura nei ragazzi che si approcciavano al calcio. Parlò dell’obbligo di far loro frequentare le scuole, perché «se sono pochi ad arrivare in serie A, gli altri poi che fanno?». Quindi meglio passare più tempo davanti a una lettura che non stare con gli occhi puntati sui social. “Libero”: «Ritengo che la conoscenza sia libertà di pensiero e i giocatori con maggiore cultura sono quelli che recepiscono meglio i messaggi». Di Francesco ama il calcio spagnolo, ma in Emilia ha dovuto inventarsi un diverso modo di giocare. «Sarei un pazzo se facessi il tiki taka con i giocatori che ho a disposizione», ci disse. Per tutti è zemaniano, ma con le differenze necessarie. E ce le ha spiegate.
L’ANTI ZEMAN – «Ho molta più cura della fase difensiva. Gioca più basso? No, leggo la palla. Quando questa si scopre i difensori scappano verso la porta; quando è coperta o viene scaricata dietro noi, o risaliamo o stiamo fermi. Non ci abbassiamo. Voglio che la mia squadra sia un blocco unico». Parlò anche dell’eventuale salto da una piccola come il Sassuolo a una big, anche se la Roma, all’epoca, era ancora lontana: era appena arrivato Spalletti, che Di Francesco stima molto «per la personalità». Allenare i giovani, insomma, è un conto, confrontarsi con i big è diverso. «Non può essere la stessa cosa, ma i concetti di gioco e l’idea di lavorare sulla palla viene trasmessa a qualsiasi livello, in qualsiasi squadra. Lo dimostra Sarri col Napoli: un allenatore quando dà ai propri giocatori competenze e conoscenze, loro sono i primi a riconoscerle e a seguirle. Se hai idee, le puoi portare al Real Madrid e al Sassuolo, o al Carpi. L’importante è avercele». Lui ce le ha e ora avrà/avrebbe l’opportunità di trasmetterle a Trigoria, “ambiente” che conosce e conta di non subire. «A Roma mi sono trovato benissimo. Lì ci sono pressioni, ma servono per non abbassare le motivazioni, per mantenere alta l’attenzione. Magari in altri ambienti più tranquilli, anche inconsciamente, tendi ad abbassarla». Quindi che tipo di allenatore serve a Roma per vincere? «Serve un’unità di intenti e una progettazione. Una società. Si deve credere in un allenatore, oltre le difficoltà, perché è lì che si vedono i gruppi, le persone e gli uomini». E Totti? Rispose anche su questo. Con il sorriso. «Se smette, gli proporrei di venire a farmi da collaboratore». Ha smesso.