È stato bambino anche lui e c’era la guerra. «Un periodo disastroso per l’intera Bosnia. Forse è stato un bene fossi così giovane. Non capivo che cosa stesse succedendo». Quando tutto comincia e sembra che tutto debba finire, Edin Dzeko ha quasi sei anni. Quando smettono di sparare, almeno quando smettono di avere una scusa per farlo, ne ha compiuti abbondantemente nove.
LA FATICA – Dzeko ha raccontato più volte questa storia. Ieri però, parlando con David Trezeguet su Premium Sport nella sesta puntata di “9 – Vita di bomber”, è sceso in particolari. Su quell’inizio della sua vita e su altre faccende, più recenti. «Volevo solo giocare a calcio con i miei amici. Ogni tanto suonavano le sirene e dovevamo metterci al coperto per ore e ore». Tra la paura delle bombe e la passione per il calcio ha vinto la passione e non sarà l’ultima volta nella vicenda professionale di Dzeko. La prima stagione al Wolfsburg per esempio fu dura, con il vantaggio non piccolo che nessuno sparava. «Allenamenti durissimi, pensavo di non farcela. Qualcosa mi è scattato in testa: se parti battuto, lo sei. Al secondo anno in Germania io e Grafite abbiamo segnato più di 50 gol in due e abbiamo vinto la Bundesliga». Di titoli Dzeko ne ha vinti, dalla Germania all’Inghilterra. Conta di non avere chiuso così. «Lo scudetto con la Roma è il mio sogno. Qui si vive per questa squadra. Se riesci a vincere in giallorosso diventi Dio. E io sono curioso di scoprire che cosa si prova a essere Dio». Per qualche giorno, magari. «Io volevo l’Italia, dopo tutte le esperienze che avevo accumulato. Pjanic mi chiamava, Sabatini mi voleva e mi ha convinto». A proposito di essere un dio: secondo Jovetic, per diventarlo da noi non serve neppure vincere il titolo, basta segnare tanto. «Così mi raccontava, ma poi ho scoperto che a Roma ogni cosa dura poco. Due partite andate bene e sei campione, una persa e non va più bene niente. E’ stata dura superare il primo anno, andare oltre le critiche. Però giocavo male, quindi ritenevo giuste quelle critiche. Molti pensavano volessi andarmene, ma non sono il tipo. Volevo dimostrare di essere bravo. Come centravanti ho imparato più in Italia che in Germania e in Inghilterra, a muovermi come deve fare un attaccante per esempio. E tanto mi ha insegnato Spalletti».
GRAZIE – E tanto gli ha dato Francesco Totti, figuriamoci se lo dimentica. «Anche se in questa stagione non ha giocato molto, per me è stato importantissimo. Da lui ho avuto assist incredibili. Con la Sampdoria mi ha permesso di segnare un gol che ha cambiato tutto». Quello del 2-2 all’Olimpico. Poi ha ricambiato creando il rigore della vittoria, calciato da Totti. Così Dzeko ha viaggiato da un capo all’altro della sua vita. In mezzo, la Repubblica Ceca dove andò a 18 anni perché in Bosnia le squadre non avevano più neppure i campi. La Germania di cui abbiamo parlato, «il posto in cui – ricorda – sono diventato un giocatore». E ovviamente il Manchester City. «Mancini mi voleva, io chiedevo un club importante. Eravamo 22 giocatori forti, non si poteva sbagliare neppure in allenamento. Mancini però non aveva problemi a giocare con tre punte. Correvano tutti come matti e all’inizio ho patito». E’ il suo marchio: sofferenza, caduta, riscoperta di se stesso.