La sensazione è che Spalletti abbia imparato a dir male le bugie. Più sostiene che le sconfitte, benché dure da digerire, sono fatte apposta per essere superate e che i suoi, in allenamento, gli avevano dimostrato di aver superato il trauma delle Termopili portoghesi (che include l’aver dovuto sacrificare la Champions perché con quelle orecchie nello stretto passaggio delle Termopili proprio non ci passava, l’essersi accorti di non meritarsi l’Europa più grande e l’aver toccato con mano uno dei fallimenti stagionali più precoci), e meno riesce a dissimulare la propria delusione, la crisi del suo gruppo, l’eterna assenza della proprietà, i dubbi sul futuro, l’intreccio perverso fra bassa autostima e un vago senso di onnipotenza, il mercato che non finisce mai (in uscita), le contorsioni tattiche e nei ruoli e infine quel maledetto imbroglio, quel secolare pasticcio emotivo che accompagna la Roma da quando esiste, sempre a un passo dal lanciarsi verso altri mondi, sempre respinta a porte in faccia.
Il carattere non forgiato della Banda Spalletti si conferma a Cagliari: non è stato smaltito niente, i nove giocatori in cui s’era ridotta la Roma col Porto diventano i balbettamenti del finale che hanno permesso al Cagliari di pareggiare, le “seconde palle” buttate, dimenticate per svogliatezza o sfinimento, l’assenza di concentrazione, un’assurda paura che fa tremare i polsi e le caviglie o, chissà perché, una congenita abitudine a pensare, tutti insieme, che a Roma si può anche non vincere.
Doppio vantaggio. Come a Bologna lo scorso anno (per non dire di Leverkusen). Stile Garcia. Una squadra ambiziosa e forte non spreca neanche un filo d’erba. Se va avanti e vuole la testa della classifica te lo fa capire ringhiando il giusto. Soprattutto in momenti tanto critici. La Roma aveva chiuso la partita col rigore di Perotti al 5’ del primo tempo e con Strootman che tornava al gol al 1’ della ripresa. Ma di carattere il Cagliari, nella sua semplicità, ne ha almeno il doppio. Ha rischiato di prendere altri quattro gol ma nell’ultima mezzora ha sfruttato gli errori madornali e al tempo stesso banali di una squadra impreparata di testa. E così ha pareggiato con Borriello e con Sau. Meritando. Rastelli chiedeva a Di Gennaro di verticalizzare perché ormai le gambe degli avversari erano quel che erano e aveva ragione. Nella Roma c’era chi camminava (Perotti poi uscito), chi malediva per l’ennesima volta di dover giocare da terzino aggredito (Florenzi), chi non conosce chi, chi non ha più tutta questa voglia. E tutto mentre Bruno Peres ricordava Maicon: non gli si alzavano quasi più le gambe. La situazione della Roma è un punticino nero sopra un foglio bianco. Alcune matite spuntate hanno cercato di disegnare calcio. Sono usciti scarabocchi, slanci, foga, calcio estemporaneo. Senza criterio. Né l’autorevolezza di saper difendere quanto già ottenuto. Forse la cosa più grave.