Cantando sotto la pioggia. Comincia così la serata dei tifosi romanisti all’Olimpico di Baku. In comune con l’impianto a noi più familiare non c’è solo il nome, ma anche l’efficacia della copertura. Scarsa in ogni settore. A riscaldare l’ambiente ci pensano i tifosi locali, carichi all’inverosimile per questo debutto assoluto nella fase a gironi della Champions League sul terreno di casa. Sono ancora in pochi quando Alisson e Skorupski avviano il riscaldamento degli uomini agli ordini di Di Francesco, ma accolgono i portieri con una bordata di fischi assordante, che riesce perfino a coprire la musica diffusa dagli altoparlanti. Fischi che, se possibile, crescono di intensità al momento della discesa in campo del resto dei giocatori della Roma.
A infuocare ulteriormente il pubblico ci pensa lo speaker dello stadio, una sorta di vocalist da locale notturno che urla per circa quaranta minuti, spingendo i presenti a ripetuti boati. Con la differenza che in questa occasione il locale conta settantamila persone infervorate. La partita è per loro un evento epocale. Tanto da scomodare la presenza in tribuna autorità del presidente della repubblica Aliyev, con tutto il corollario di controlli serratissimi che la sua partecipazione comporta: strade chiuse, uomini dei corpi speciali dell’esercito ad affiancare la polizia, metal detector alla stregua di quelli in uso ai varchi aeroportuali. L’ambiente è caldissimo,la pioggia battente, ma anche nella notte azera sale alto uno, due, tre “Forza Roma alè” a stupire i presenti. Dai duecento imbacuccati di Baku. Soltanto l’inno della Champions distoglie l’attenzione da loro, poi è l’inno della Sud a riempire l’aria. E le bandiere giallorosse che sventolano in un inferno un po’ artefatto per la verità, restano l’unica macchia di colore.