Da Bascarsija arrivi a Grbavica in sette minuti di taxi, dieci massimo all’ora di punta. Domenica mattina, la Bosnia qualche ora prima ha lasciato per terra le ultime speranze di check-in per la Russia. Otto e mezza, il sole se la batte ma niente da fare, proprio come per Dzeko contro il Belgio. Vincono le nuvole, perde Edin. Di fronte allo stadio palazzoni alti alti che puzzano ancora di kalashnikov, i segni li vedi ancora, fori grandi così sulle facciate di un quartiere che di nuovo ha poco, pochissimo. Lo stadio è vuoto, ancora i segni della delusione, cartelloni tirati giù e la serranda dello shop tristemente abbassata. Dieci, venti metri più in là c’è vita. C’è un campetto dove nascono i nuovi Dzeko. È l’ora della colazione, ma la formazione giovanile dello Zeljeznicar è già lì che sgomita, amichevole di fine settimana. Sembra di vederlo, Dzeko, nelle facce di questi ragazzi. Uno di loro, Amar, è stato scelto dal Bayern Monaco per un periodo di prova. Il chiodo fisso dopo il sogno, quello di fare carriera. «Per me Edin è un punto di riferimento, magari riuscissi a fare come lui», dice Benjamin, 12 anni. «Di lui mi piace tutto, il suo modo di stare in campo, la sua tecnica, sì, tutto», sorride Tarik, mentre guarda i coetanei giocare.
DUE FACCE – Edin l’hanno pure nominato ambasciatore del calcio giovanile, a Grbavica. Lo «Zeljo» la squadra del popolo. E qui il popolo si divide. Sì, anche qui, a Sarajevo e non solo a Roma. È calcio, non è altro, pure dentro una città che fa convivere ogni mattina che si alza etnie e religioni diverse. C’è chi ce l’ha con Edin, capitano ma non condottiero di una nazionale che ha mancato il Mondiale. Incredibile a dirsi, non bastano i numeri che ne fanno il giocatore che ha segnato di più (51 gol in 86 presenze) nella storia della Bosnia. «Quando viene in nazionale non mette lo stesso impegno che mostra nei club, il Manchester City prima e la Roma ora», spiega un altro Edin, che di lavoro fa il tassista e pure lui ha gli occhi fissi sul campetto. «In Serie A è forte, duro nei contrasti, cattivo – racconta l’amico –. Qui con la Bosnia gioca in punta di piedi, a volte sembra un ballerino». Scappa una risata, sembra quasi di ascoltare Luciano Spalletti, che del Dzeko poco «strong» ne ha fatto un ritornello. Lo raccontano pure a Sarajevo, un episodio dello scorso anno, giusto dopo un Napoli-Roma. Dzeko fa doppietta, il giorno dopo a Trigoria Spalletti lo incrocia e gli chiede: «Edin, quanti gol hai fatto ieri?». E il bosniaco: «Solo due, mister». E Luciano: «Bravo, “solo” due». Ecco, chi lo critica a Sarajevo lo fa perché pretende dal centravanti quello che questo centravanti non può dare e non può fare, vincere le partite da solo. Non è Ronaldo, non è Messi, avrebbe bisogno di una squadra intorno e invece se non è un deserto è un paesino, la nazionale di Mehmed Bazdarevic.
CON PAPÀ – I brusii dello stadio Grbavica sul gol mangiato a fine primo tempo e il mancato 3-3 della ripresa raccontano questo. L’urlo al suo nome, all’annuncio delle formazioni, faceva capire altro. Due facce di una medaglia. La faccia di Edin, invece, ieri mattina all’aeroporto era triste. Solitario, ha fatto il check-in per l’Estonia e s’è rifugiato al bar del primo piano per una chiacchierata con papà Midhat. «Ho già detto tutto dopo la partita, cos’altro devo aggiungere?», ha sospirato. E sì che non s’era mica risparmiato: «C’è bisogno di professionalità, dobbiamo esserlo di più, dobbiamo imparare dai nostri errori se vogliamo crescere», ha accusato, prima di rispondere all’ennesima domanda sul futuro. «Se lascerò la nazionale dopo le qualificazioni? No, non è il momento, sono ancora giovane». Una, due, tre volte. Poi via verso Tallinn. E un po’ di testa pure al Napoli. Sabato Mertens gli concederà la rivincita, Edin progetta a breve termine. Vuole un trofeo con la Roma. Più avanti, confida Sarajevo, sarà ritorno al Wolfsburg oppure Stati Uniti.