Gli adesivi di Anna Frank con con la maglia della Roma, gli stessi che i tifosi della Lazio hanno lasciato in Curva Sud, consentono di riavvolgere il nastro fino al febbraio scorso. Otto mesi fa infatti, il gip Ezio Damizia motivò l’assoluzione di due tifosi laziali, accusati di aver urlato «giallorosso ebreo, Roma va a c..à», scrivendo che «l’espressione “giallorosso ebreo” ha la finalità di deridere la squadra avversaria ed è ricollegabile allo storico antagonismo». Quindi, in merito all’accusa di diffusione di odio raziale, «il fatto non sussiste». Un’affermazione che fece discutere e che ora viene richiamata anche dagli stessi ultrà della Lazio. Gli irriducibili, a proposito di quegli adesivi che hanno portato anche le più alte cariche dello Stato a intervenite, affermano: «Si tratta di scherno e sfottò da parte di qualche ragazzo forse, perché in questo ambito dovrebbe essere collocata questa cosa, anche in virtù del fatto che, come da sentenza di tribunale, non è reato apostrofare un tifoso avversario accusandolo di appartenere ad altra religione. Ma evidentemente nemmeno la Figc se ne ricorda se è vero che hanno aperto un’inchiesta». Le poche similitudini tra il coro per cui i due laziali vennero assolti e gli adesivi, che ritraggono la ragazzina simbolo della Shoah uccisa nei campi di concentramento di Bergen-Belsen, sono evidenti. Ma in punta di diritto la sentenza del gip Damizia costituisce un precedente importante. In quel caso gli indagati erano stati pizzicati dalle telecamere. Era il 30 marzo del 2013 e la Lazio ospitava il Catania. I biancocelesti, allora guidati dall’allenatore bosniaco Vladimir Petkovic, avrebbero vinto portando a casa un 2 a 1. Ma durante l’intervallo, fra le 15,38 e le 15,39, dagli spalti era partito un coro contro la tifoseria che solitamente occupa la curva Sud: «Giallo rosso ebreo, Roma va a c..à». Le telecamere di sorveglianza dell’impianto avevano beccato gli indagati intenti a incitare la Nord cantando quelle parole. Non era stato difficile per gli uomini della Digos individuare i due tifosi.
E dopo la denuncia di rito le indagini avevano condotto gli inquirenti fino alle abitazioni dei due indagati. E così, durante la perquisizione, in casa di uno dei due tifosi era stato trovato un manganello retrattile e un manifesto particolare: raffigurava l’immagine di Alessandro Alibrandi, il terrorista proveniente dall’ultradestra capitolina degli anni Settanta. «Alibrandi lo hanno ammaz zato i suoi, è morto per fuoco amico», avrebbe detto in seguito Massimo Carminati, intercettato al telefono nel corso dell’inchiesta al Mondo di Mezzo. Ma questa è un’altra storia. Nulla a che vedere con le accuse di istigazione all’odio razziale contestate dalla procura di Roma e che secondo il gip «non sussistono». Perché nel motivare la sentenza il togato ha spiegato che «l’espressione giallorosso ebreo ha la finalità di deridere la squadra avversaria ed è ricollegabile allo storico antagonismo» fra le due compagini capitoline. Il tribunale di piazzale Clodio ha quindi spiegato che l’espressione e le parole usate all’Olimpico dagli imputati «rimangono confinabili nell’ambito di una rivalità di tipo sportivo». Il coro, in buona sostanza, «aldilà della scurrilità – si legge nella sentenza – esprime mera derisione sportiva». Insomma è uno sfottò che deve essere ricondotto al clima da stadio. «Sebbene l’accostamento giallorosso con ebreo possa aver assunto nelle intenzioni del pronunciante valenza denigratoria, ricollegabile latamente a concetti di razza, etnia o di religione – continua il gip nelle motivazioni – le modalità di esternazione non costituiscono alcun concreto pericolo di diffusione di un’idea di odio razziale e di superiorità tecnica». Razzismo o meno, gli scontri verbali tra le due tifoserie negli ultimi mesi stanno diventando sempre più aspri. Nel maggio scorso, ad esempio, quattro manichini giallorossi erano stati impiccati sul ponte pedonale di via degli Annibaldi. Salah, Nainggolan e De Rossi non avranno vissuto momenti sereni osservando quei manichini che, indossando le loro maglie, penzolavano sotto uno striscione che recitava: «Un consiglio senza offesa, dormite con la luce accesa». Anche in quel caso gli ultras della Lazio si erano mostrati «meravigliati e stupiti da tanta ottusità, dal sensazionalismo misto all’allarmismo che anima il giornalismo italiano». Anche in quel caso si era parlato di «sfottò».