La verità è che nella testa resta ancora calciatore. Perché quello è stato (ad altissimi livelli) per 25 anni e perché questo, probabilmente, desiderava fare ancora per un po’. Magari solo un altro anno, per chiudere meglio di quanto non sia successo ed esorcizzare l’incubo della fine. E invece, come per tutti, la fine è arrivata e per lui ha avuto anche dei tratti di dolcezza, con quel 28 maggio che ha trasmesso in mondovisione le emozioni del cuore. Francesco Totti da allora ha vissuto un percorso fatto di pensieri e metabolizzazioni verso la carriera da dirigente. Anche se poi, dalle sue parole, traspare ancora l’amore per il calcio di un tempo, fatto di bandiere, simboli, campioni che restano e non si vendono. Di tutto questo ha parlato a «I Signori del Calcio», in una intervista realizzata a fine dicembre a Dubai, in onda sabato su Sky ma in anteprima stasera sul canale «On demand».
IL MERCATO – Totti parte dalla fine e cioè dal mercato impazzito dalla scorsa estate. «Io oggi costerei 200 milioni». Ecco, la mente del calciatore nasce da qui. Dalla valutazione. Alta, ad un soffio dai 227 che il Psg ha pagato per Neymar e poco sopra i 180 spesi (sempre dal Psg) per Mbappé. Ma anche logica, visto che per anni Totti è stato l’oggetto dei desideri dai migliori club europei. «L’offerta più concreta fu del Real Madrid nel 2003-04 – dice – Ma ho fatto una scelta: precludermi la possibilità di vincere tanto per restare sempre con la Roma. E alla fine ho avuto amore e passione, più importanti che vincere altrove». Anche, evidentemente, più importanti di quel Pallone d’oro che per molti avrebbe meritato e che un po’ gli manca. «È vero, è una delle cose che mi è mancata. Giocando con la Roma sapevo di avere meno possibilità rispetto a Real, Juve o Milan. Lì avrei avuto più visibilità internazionale, il Pallone d’oro si vince conquistando la Champions, il Mondiale (che Totti comunque ha vinto nel 2006, ndr) o qualche altro trofeo importante».
IL BUSINESS – Già, il mercato. Totti dirigente lo pensa e lo vede ancora come il Totti calciatore. Nel senso che rispetto al suo calcio, a quello anche di dieci anni fa, oggi è cambiato tutto. Oggi è molto più business e molto meno sentimenti. È una legge quasi scritta, a cui Totti fa ancora fatica a metabolizzare. Come l’ultimo dei romantici, la lettura è ancora diversa. «Non penso che possa più esistere un altro Totti, un giovane della Roma che cresca qui e possa fare le stesse cose che abbiamo fatto io e De Rossi – continua –. Oggi è tutto diverso ed è impossibile che quello che è successo con noi si ripeta. Prima si pensava ai giovani promettenti italiani più che scoprire un giovane sudamericano o di qualsiasi altro Paese». Anche se poi lui la ricetta per vincere ce l’avrebbe anche. Di fatto, però, difficilmente compatibile con il calcio di oggi. È lo stesso grido di allarme che lanciava quando giocava, chiedendo a Franco Sensi di comprare più campioni possibile. «Dipendesse da me spenderei qualsiasi cifra possibile per comprare i giocatori più forti, perché per vincere servono quelli. L’ho sempre detto e lo dirò sempre. Però poi non gestisco io i soldi, è il presidente che decide. Lui stabilisce un budget e con questo deve essere bravo a costruire la squadra». Non Pallotta, ovviamente, ma Monchi.
IL NEMICO – E il finale non poteva che essere per lui, per Luciano Spalletti, il grande nemico della scorsa stagione, l’uomo che gli ha reso più amaro l’ultimo anno. «Con lui non c’è mai stato un confronto e mai ci sarà – chiude Totti –. Avrei preferito chiudere in altro modo, fossi stato in lui avrei gestito il calciatore e l’uomo in altro modo: mi sarei confrontato, gli avrei parlato. Comunque sono riuscito a fare questo passaggio da calciatore a dirigente. Ma sono cresciuto nel campo e nel campo morirò». Appunto. E forse è giusto anche così. Totti è stato uno dei più grandi calciatori di sempre. E dentro, fino alla fine, sarà sempre calciatore. Anche e soprattutto con la testa.