La Roma perde e la rassegnazione prende piede. Ma per chi ha vissuto 14 partite senza vittorie con Mazzone, per chi ha creduto in Salsano, il problema ora è il distacco –
Marco non ha nemmeno la forza di contestare. Vede la bufera che si sta per abbattere sull’Olimpico per la terza volta in quattro partite giocate a casa nel 2018 e l’aspetta, rassegnato e inerme. Non cerca colpevoli, ma si concentra sugli innocenti: quei quarantamila ostinati arrivati allo stadio convinti di sfidare con guanti e cappelli le intemperie di Burian e che si sono invece ritrovati nudi e impotenti davanti a una Roma che più che le mani, ti ghiaccia il sangue.
“Solo la maglia, tifiamo solo la maglia”. Anche il coro che si leva dalla Sud quando il peggio scatenato dal gol di Cutrone scopre che il suo limite è ancora inesplorato fino al raddoppio di Calabria, più che una contestazione è una presa d’atto dell’unica cosa a cui aggrapparsi: “Chi tifa Roma non perde mai”. Nella sconfitta senza innocenti in campo, in cui non ce n’è uno da salvare “perché lui sì che ci ha almeno provato”, i tifosi della Roma si scoprono stanchi. Carlo scorre i ricordi e cerca di ritrovare un precedente, una speranza o un appiglio a cui aggrapparsi per vedere la quiete dopo la tempesta, ma nulla: fischia il vento e infuria la bufera.
Questa volta non c’è un elemento in grado di riaccendere la fiammella, tanto e tale è lo sbando che i suoi occhi percepiscono dal campo quando anche Di Francesco decide di alzare bandiera bianca inserendo una mezza dozzina di attaccanti e azzerando un centrocampo già in grande affanno di suo. “Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere”. Ciccio cerca con il gusto della battuta di risollevare il morale di chi gli sta intorno, e invece nevica e nessuno ride. Questo è quanto. Questo è il conto che presentano alla Sud (e alla Nord, e alla Monte Mario, e alla Tevere e ai Distinti) i tesserati di una Roma che doveva portarci in cima al mondo e invece sta portando sottozero un sentimento.
Già, perché per chi come noi ha visto le 14 partiteconsecutive senza vittorie di Mazzone, per chi come noi è cresciuto con Piacentini e Bonacina e considerando Fausto Salsano l’uomo in grado di spostare gli equilibri, quello che fa rabbrividire più di Burian e di Gattuso che esulta nel nostro stadio – così fan tutti – è il distacco, la sensazione di scollegamento che comunicano con i fatti prima e con le parole poi gli undici giocatori, chi li guida dalla panchina e chi li dirige dalla tribuna: “Abbiamo giocato un buon primo tempo”.
A queste latitudini più che le sconfitte, preoccupa infatti da sempre il modo in cui le sconfitte arrivano. Del resto, siamo la curva che ha dichiarato il suo amore a prescindere – “Mai schiavi del risultato” – siamo la curva che tra gioie poche e dolori tanti non ha mai fatto mancare il suo apporto: “Che sarà sarà”. Questa volta, però, sembra diverso. Non sappiamo da dove ricominciare, perché quella andata in scena ieri (e ieri l’altro) all’Olimpico rischia di trasformarsi in una frattura sentimentale con pochi precedenti: potere del calcio moderno.
Potremmo provare a ricominciare da De Rossi e Florenzi, che nonostante tutto trovano la forza per farci un cenno (da lontano, visto che il male del calcio dicono si annidi lì dove più forte è la passione), forse dal Capitano di un tempo, forse più semplicemente da noi stessi, che nonostante tutto “non ti lasceremo mai”. Prima di uscire, è Marco a metterci davanti all’evidenza dei fatti, nonostante tutto e nonostante loro: “Ricominceremo da Napoli, perché comunque vada noi non supereremo mai questa fase”.