A parole, la Superlega era l’incubo di Michel Platini. Ora sarebbe in cima alle preoccupazioni del nuovo presidente dell’Uefa, lo sloveno Alexsander Ceferin, che a meno di un mese dalla sua elezione scopre che il dg dei danesi del Fc Copenhagen, Anders Hørsholt, si è incontrato con altri “piccoli” club europei: Ajax, Psv, Feyenoord, Anderlecht, Bruges, Celtic, Rangers, Rosenborg. Alcuni più decaduti che piccoli: fra loro ci sono infatti una leggenda assoluta (Ajax) e tre squadre che hanno vinto una Champions.
Insieme stanno cercando un modo per opporsi al futuro, tirannico assetto della Champions League che a partire dal 2018, per regolamento, ossia per blasone, ricavi e quote fisse, ossia per quel sordido capitalismo che regge il calcio, dei 32 posti della fase a gironi ne riserverà ben 16, la metà esatta, alle squadre di Premier, Liga, Bundesliga e Serie A.
Ceferin dice di detestare le distinzioni di classe e ha precisato: «Quel progetto può essere rivisto». Ma non può avallare scissioni. Le “piccole” sognano un campionato internazionale dalla formula ibrida alternativo sia alla Champions che somiglia sempre di più all’“odiata” Superlega, sia ai campionati nazionali, molti dei quali si chiamano ironicamente Superliga: «Non si farà mai», dicono i commentatori, «avrebbe la popolarità di un torneo di seconda fascia ma con costi di prima».
E poi, fuori dall’Uefa, con quali criteri di ammissione? Complicato. Resta che l’80% dei club che partecipano alla Champions da perdenti nati, schiacciati dai padroni e attaccati al punticino («l’elemosina dell’Uefa!»), la considerano ormai un pranzo a inviti selezionati. Agli altri, come diceva Sordi, “cocce de noci” (a meno che non esibiscano un talento con cui fare cassa). E non è detto che nel 2021 le cose migliorino: «Magari a quel punto», conclude il pessimista Hørsholt, «la Champions potrebbe essere diventata intercontinentale!». Chi aveva detto che il calcio unisce?