Come nasce quella fantastica squadra che il 17 giugno si laurea Campione d’Italia?
“Nasce, come tutti i progetti, da uno lavoro programmatico, devi avere un po’ di fortuna e devi sbagliare poco. La Lazio vince lo scudetto 1999-2000, l’anno in cui io ero arrivato, e questa cosa fece indispettire non poco il Presidente Sensi. Noi avevamo programmato un crescendo d’investimenti e di scelte in tre anni. Mi ricordo che una sera il Presidente Sensi mi disse: “Fabrizio, io sono troppo grande d’età… voglio provare ad azzardare…” e provammo ad anticipare di due anni gli investimenti previsti per il triennio. Fummo bravi e fortunati, indovinammo quasi tutto, sbagliammo poco, riuscimmo a mettere in campo, grazie al Presidente e grazie ad un allenatore straordinario, una squadra di campioni e di uomini, perché alla fine la differenza la fa quello e venne fuori lo scudetto”.
I tre grandi acquisti: un difensore come Samuel, un centrocampista come Emerson ed un attaccante come Batistuta che si andavano ad aggiungere ad un gruppo già consolidato, secondo lei furono decisivi per cambiare il volto a quella squadra? “Credo che contribuirono a rendere fenomenale quella squadra. Quando parlo di atteggiamento programmatico parlo sia in termini tecnici che finanziari. L’idea di anticipare a due anni gli investimenti significava dividere in due anni 200 miliardi li lire/euro di spese di investimenti che avevamo previsto per tre. Poi fummo bravi e fortunati a spenderli bene e al secondo anno arrivarono questi tre giocatori che si sommarono al primo anno dove non avevamo fatto un grande campionato, del resto la Roma in quel momento, non veniva da grandissime stagioni. Era un anno che doveva servire per gettare le basi, e poi nel 2001 su quelle basi, inserimmo quei giocatori che abbiamo elencato prima. Secondo me, l’anno dopo lo scudetto eravamo ancora più forti perché su quel telaio di squadra di campioni inserimmo altri giocatori ma arrivammo secondi. Tornando al 2001, devo dire che quello scudetto è stato veramente un risultato straordinario. Se ci penso, ancora oggi mi vengono i brividi”.
Potrebbe quantificare in termini percentuali l’influenza di un personaggio, un allenatore del calibro di Capello per capire quanto può essere importante avere giocatori straordinari e quanto conta saperli gestire? “La domanda mi consente di esplicitare un concetto che racconto di questo aspetto, ma che poi vale sempre nell’ambito del calcio. L’artefice principale è stato Franco Sensi, è la persona alla quale va legato quello Scudetto, ma se non avessimo avuto Fabio Capello come allenatore, sarebbe stata dura. Perché quando tu allestisci una squadra di grandi giocatori, di grandi campioni, il problema è di doppia natura: sia tecnico che sportiva, ci vuole una grande unione tra società e tecnico. Ci vuole un allenatore che capisce questi meccanismi. Un allenatore che doveva portare un certo tipo di vissuto, che lui aveva già maturato dalle sue esperienze precedenti. Quindi noi tutti, me compreso, avevamo bisogno di un uomo forte fuori dal campo, come Franco Sensi, e di un uomo forte nel rettangolo verde, l’allenatore, intorno al quale far girare il progetto sportivo. La mia funzione era quello del regista fra queste due realtà e alla fine sono riuscito a generare la partita della vita, venne fuori proprio questo concetto per cui era importante avere i giocatori forti ma altrettanto avere un allenatore vincente. E questo è l’augurio che faccio alla Roma di quest’anno, con l’arrivo di Mourinho”.
In quegli anni Totti era tra i più forti giocatori al mondo? “Si. Totti è un fuoriclasse, non è un campione. La Roma aveva tanti campioni, qualche fuoriclasse e tutti ottimi giocatori. Totti lo classifico tra i fuoriclasse, tra quei giocatori che nei decenni, quando si fa la gara a dire: “chi era il più bravo di…” Totti sta certamente nell’Olimpo dei grandi. Era un giocatore di uno standard assoluto e in Italia è senza ombra di dubbio tra i primi. Ho avuto il privilegio di lavorarci quattro anni e vi dico che quello che si vedeva la domenica, era solamente un pezzettino del suo straordinario repertorio. Tra l’altro è un ragazzo d’oro, che vuole bene alla Roma e sono convinto che se gli fanno l’analisi del sangue, non trovano il sangue rosso ma lo trovano giallorosso”.
Direttore, lei è rimasto legato alla nostra città? “Io sono rimasto innamorato di Roma, della Roma e dei romanisti. Vivo a Roma e voglio bene a questa città, voglio bene ai tifosi, anche se sono passati vent’anni l’affetto che mi lega a loro è intatto. Sento il calore forte della tifoseria nei miei riguardi ed è una roba che mi inorgoglisce e mi fa sentire un privilegiato. Sono rimasto a vivere a Roma anche se dopo la Roma ho fatto altre esperienze. Addirittura sono andato a lavorare alla Fiorentina tre anni e ho fatto il pendolare tra Roma e Firenze pur avendo casa a Firenze. La mia famiglia è a Roma, i miei figli sono cresciuti a Roma, sono tifosissimi della Roma, perciò posso dire che sono felicemente innamorato di Roma e della Roma”.
FONTE: Il Giornale di Roma