L’ex direttore sportivo della Roma Gianluca Petrachi, è tornato a parla della sua esperienza da dirigente con la Roma. Lo ha fatto parlando di tutti i vari argomenti affrontati con la precedente gestione, avendo un pizzico di rammarico per come è andata la sua prima esperienza in una grande squadra:
Si sente mortificato da questa situazione di Roma? “Sì, perché sono venuto con tantissimo entusiasmo, penso fosse visibile a tutti. Ho creduto tanto nel progetto Roma e in ciò che mi era stato detto. Vorrei ricordare che per venire qui ho avuto una diatriba con il mio ex presidente. Nonostante sapesse che sarebbe stato il mio ultimo anno al Torino, ha fatto di tutto per non mandarmi. Non è stato semplice e non lo è ora. Cairo è una persona di potere. Mi importava di venire a Roma e di credere di poter cambiare qualcosa. Penso ci siano problemi più grossi. Al di là delle plusvalenze, il Torino ha raggiunto livelli che da anni non raggiungeva. E’ arrivato in Europa League. L’idea era venire a Roma e avere persone affianco che mi dessero la forza per cambiare le cose”.
Non si è fatto capire o gli altri non l’hanno capito? “Credo che mi hanno capito bene, per sei mesi mi hanno anche sostenuto e le cose sono state fatte. L’ho scritto anche nella lettera. Fino a dicembre-gennaio ho fatto tante cose con l’aiuto della società, qualcuno può anche documentare di quanta disciplina e rigore ci fosse a Trigoria e quanta gente non entrasse più, quanta mentalità professionalità ho cercato di portare e quante multe ho fatto. Ho cercato di porre fine a tante situazioni che accadevano, tanta gente che era lì e non faceva nulla sostanzialmente…Ho cercato di far capire che per essere vincenti bisogna partire dalle fondamenta. Se vai a far la guerra e dietro non hai massaggiatore, medici ecc…magari qualcuno spera che il direttore venga cacciato, è evidente che hai già perso. Nel calcio le cose non possono sempre andare alla stragrande. Nelle difficoltà si esaltano le persone, troppo facile quando le cose vanno bene. Nella struttura Roma questa unione e compattezza non c’è mai stata. Molte persone si parlavano male, questa era la situazione generale. Ho cercato di unire e integrare anche chi non si parlava. L’importante è che ci sia compattezza tra noi, qualcosa non ci sia e qualcuno crea strumentalmente confusione io allontano le persone. Se la società non mi dà la forza, perdo io. Ci sono delle regole non scritte che valgono”.
Quando ha iniziato a sentirsi un uomo solo? “Devo essere sincero. Ad un certo punto ho chiesto alla mia persona di riferimento se il presidente fosse contento di ciò che si stava facendo. Non parlo bene l’inglese e non ho mai avuto un confronto diretto con l’allenatore se non in 2-3 occasioni. Gli veniva tutto raccontato, non so cosa. Sotto Natale inviai un messaggio a Pallotta, eravamo in piena lotta Champions, e non mi ha mai risposto. Ci sono rimasto male e mi sono domandato se fosse successo qualcosa. In quel momento ho capito che mi stavano scavando la fossa, cercavano di distruggermi in maniera subdola. Ho sperato che il presidente mi chiamasse. Sono andato avanti per la mia strada, cercato di fare i cambiamenti e determinate cose non me le hanno fatte fare. Ho capito lì che dovevamo sperare finisse il campionato e poi guardare in faccia le persone: o si faceva come dicevo io oppure dovevamo mandarmi via”.
Che voto daresti al tuo operato? “Credo di aver fatto le cose in linea con quanto chiesto dalla società. Mi reputo un aziendalista. Mi hanno detto di mandar via i vecchi e prendere giocatori giovani per rendere la squadra più forte stando attento al bilancio. L’idea era rendere la Roma più forte e solida, non si fa dall’oggi al domani. Si sono fatte buone operazioni, in altre operazioni sono stato costretto. La struttura era salita su bene, erano stati confermati dei ragazzi bravi e presi giovani importanti. La mia struttura era riuscita a sistemare 15 giocatori, alcuni non avevano chissà quale mercato. Le basi erano state messe. Tanti giocatori rifiutano anche il trasferimento, come tre giocatori della Roma. Fa parte del gioco”.
Kalinic? “L’ho preso in prestito gratuito e hanno pagato l’ingaggio. Ha pagato i problemi fisici e nel finale di stagione se avesse giocato di più, avrebbe dato di più. I problemi veri sono quando ti lasciano giocatori da 30 milioni con ingaggi alti e non sai dove piazzarli”.
La comunicazione le ha creato problemi? “Questo lascia il tempo che trova. Questo è il mio carattere e la Roma quando mi ha scelto lo sapeva. A Roma c’è un sistema malato e tutti pensano di avere le notizie. Devo mettere un freno a questa emorragia. Come successo in altri posti, non ho mai avuto rapporti confidenziali con un giornalista né mai preso un caffè. Sono sempre stato tranquillo e pacato nelle conferenze stampa, forse avrò detto qualche parolaccia e bisogna essere degli esempi. Era più facile abbattere Petrachi perché l’intero sistema aveva piacere che non ci fosse più Petrachi. La società avrebbe dovuto difendermi e lì si sono divertiti tutti. Tutti i giornalisti che mi hanno detto ‘alla prima situazione ti distruggo ecc’. Sono andato avanti per la mia strada”.
Rimanderebbe a Pallotta quel messaggio che ha determinato la vicenda? “No è stato un messaggio sgradevole ma di confronto, che non c’è mai stato. Mi reputo una persona educata. Era un grido d’aiuto: proteggimi, dammi la forza perché sto lavorando per te e che tutto quanto ti rappresentasse nel migliore dei modi per cambiare un trend che non funziona. La mia sarebbe stata una morte lenta come lo è stata per tanti allenatori e chi è passato di qua. Non è questione di tifosi, si dà poca importanza alla carnalità e per i romanisti la Roma è una fede. Forse non si dice ai tifosi le cose in faccia. Colpa? Forse sono stato troppo chiaro con la gente e il tifoso”.
Era libero di fare acquisti? “Sono stato libero di poter scegliere, non ci sono stati condizionamenti. Franco Baldini non si è mai permesso di obbligarmi a prendere un giocatore, ha rispettato il mio ruolo. Non conosco le sue conversazioni interne con Pallotta. Dal punto di vista calcistico la Roma mi ha lasciato fare, il problema era tutto il resto che doveva essere sopportato. Vincere significa creare un gruppo e un ambiente. C’erano dei topolini come diceva il buon Spalletti”.
FONTE: Radio Radio