Il calcio è stato la sua professione, prima da calciatore e poi da allenatore. “Però non è stata la mia ragione di vita”. A parlare è Nevio Scala.
Fu difensore della Roma in una stagione 1966-67. Un’annata non banale, in cui fece l’esordio in Serie A e il primo gol. Veniva dal Milan, squadra nella quale poi sarebbe tornato, “non per mia volontà”.
Scala è anche un grande allenatore. Non solo il suo Parma, ma anche esperienze all’estero. Tra queste, lo Shakhtar Donetsk nel 2002. Vinse il campionato ucraino, il primo della storia del club. “Un traguardo eccezionale. Conquistammo anche la coppa nazionale. Impresa che decisero di omaggiare con una gigantografia del sottoscritto nel loro stadio. Ho un ottimo rapporto con il presidente Achmetov, mi fa gli auguri al compleanno e a Natale tutti gli anni. E ogni volta che c’è bisogno di una mano, di un consiglio, mi chiamano. Lo fecero pure quando c’era Fonseca alla guida”.
Parlò con Fonseca ai tempi dello Shakhtar? «Sì. Mi chiamò un dirigente del club, presente anche ai miei tempi. Contattarono me, tecnico straniero, per dare consigli sulle problematiche da affrontare nei primi mesi. Nonostante al mio fianco avessi un traduttore eccellente, un professore universitario, è normale che la comunicazione filtrata attraverso un interprete non arrivi immediatamente al cuore dei calciatori. Tradurre i sentimenti non è semplice. Dunque, capii che doveva esserci empatia a livello umano. E sa cosa feci per stabilirla?».
Cosa? «Cucinai due spaghetti con pomodoro e pancetta per i giocatori, una sorta di amatriciana… Un gesto semplice, una piccola cosa, ma così mi aiutai e riuscii a entrare più facilmente nelle loro simpatie. A volte il lato umano può incidere più di un 4-4-2 o di un 3-5-2. E questo fu il senso del discorso che feci a Fonseca. Credo che poi i risultati gli abbiano dato ragione…».
Lei come arrivò ad allenare in Ucraina? «Era il 2002, in quel momento ero fermo dato che avevo finito l’esperienza in Turchia con il Besiktas. Ad un certo punto, mi arrivò una telefonata a casa in tedesco….”.
In tedesco? «Sì, si trattava di un intermediario della trattativa. Io ho una buona conoscenza della lingua tedesca in quanto sono sposato con una donna nata in Germania. Questa persona mi chiese la disponibilità a diventare allenatore dello Shakhtar. In un primo momento rifiutai, non avevo proprio voglia di rimettermi in gioco in un altro campionato, con una lingua diversa. Poi però mi viene detto: “Mi dia retta Scala, vada a parlare con il presidente dello Shakhtar a Vienna. La porteranno a Donetsk, le faranno vedere le strutture di allenamento e tutto il resto…”».
La convinsero? «Accettai il consiglio. Effettivamente il loro centro di allenamento è qualcosa di unico e assolutamente all’avanguardia. Decisi così di prendere la guida della squadra, anche se in quel momento il campionato era fermo. Non fu mai un problema di soldi, chiesi al presidente di farmi un contratto di sei mesi e poi ne avremmo discusso a fine stagione a risultati acquisiti”.
Risultati che arrivarono. «Vincemmo campionato e coppa nazionale per la prima volta nella storia. Un’impresa, che fu possibile grazie alla collaborazione dei ragazzi con cui entrai subito in sintonia. Era un gruppo forte, capitanato da Tymoshchuk. Decisi io di dargli la fascia, aveva carisma».
L’anno dopo, però, venne esonerato nonostante i titoli vinti. «Il calcio è così. Perdemmo 4-2 in Coppa UEFA contro l’Austria Vienna una partita assurda e il presidente si arrabbiò per quel risultato. Mi chiamò e manifestò la voglia di cambiare guida tecnica. Io accettai di buon grado. E ci lasciammo così in buoni rapporti».
Roma, la Roma, per lei? «Roma è stata la prima tappa vera della mia carriera da calciatore. Arrivai bambino, spaesato, in una città così grande e dispersiva. Ma con l’aiuto delle persone giuste, ebbi la possibilità di ambientarmi al meglio. In questo senso ringrazio il mio amico Attilio Brozzi. Frequentavo la sua trattoria in via della Balduina. Grazie a lui e alla sua famiglia riuscii a rendere al meglio anche in campo».
In giallorosso fece l’esordio in Serie A. «Sì, venivo dal Milan con cui non avevo mai giocato in prima squadra. La Roma mi volle perché mi notò in un torneo disputato allo stadio Flaminio sempre nel 1966. Sia l’allenatore Pugliese sia il presidente Evangelisti rimasero colpiti dalle mie doti e quando trattarono la cessione di Schnellinger e Sormani al Milan, chiesero il mio cartellino in cambio. Il Milan del presidente Carraro accettò la proposta, ma solo con la formula del prestito. Io non avrei mai pensato di giocare tanto, invece fui titolare».
Avrebbe continuato nella Capitale? «Sì, se avessi potuto decidere non me ne sarei andato. Stavo bene, ero il giovane del gruppo, venivo coccolato. Era una rosa forte formata da giocatori come Barison, Carpanesi, Carpenetti, Ginulfi, capitan Losi, Peirò, Tamborini».
Fu proprio impossibile restare? «Sì, perché all’epoca non decidevano i calciatori, ma soltanto le società. Il presidente Carraro mi rivolle a Milano e io tornai alla base».
È vero che una decina di anni fa fu vicino alla panchina della Roma? «Parliamo della stagione 2010-11. La Roma di Ranieri era in crisi di risultati. Stavo lavorando nella mia azienda agricola, mentre scendevo dal trattore mi squillò il telefono. Fui contattato da una persona che mi chiese se fossi disposto a partire per la Capitale e rimettermi in gioco. Io accettai, ma poi la cosa rallentò e dopo qualche domenica le cose si sistemarono. Salvo poi precipitare un paio di mesi dopo, ma a quel punto fu promosso Montella dalle giovanili».
Ha citato la sua azienda. Adesso si dedica solo a quella? «E sono felice di farlo, avendo realizzato il mio desiderio. Non ho mai sognato di diventare calciatore o allenatore. Tutto è venuto per come doveva venire. È chiaro che nel momento in cui sono stato professionista, a vari livelli, ho avuto delle soddisfazioni impagabili. E questo è giusto riconoscerlo. Anche perché con i proventi del pallone ho compiuto tutti i passi che dovevo per ingrandire l’attività, che io ho ereditato da mio padre. Oggi produciamo vino, lo vendiamo nonostante le difficoltà del caso legate al momento storico che stiamo vivendo».
Dunque, non le manca il calcio? «Ogni tanto un po’ di nostalgia viene fuori. Seguo sempre con interesse, 50 anni di calcio non si dimenticano. Mi viene da pensare che, magari, potrei ancora incidere. Però poi mi fermo, ragionando sui miei 73 anni. In ogni caso, mi fa piacere dare delle opinioni quando me le chiedono».
Allora le chiediamo anche un’opinione su Roma-Milan di domenica… «Il Milan in questo momento sta soffrendo un po’. Ha perso il derby, sembra che abbia rallentato. È una squadra giovane e momenti del genere ci possono stare. Se vince la squadra di Fonseca, e non è una cosa impossibile, credo che possa procedere spedita verso la Champions. È una grande occasione. Così come in Europa League contro lo Shakhtar, la Roma ha tutto per passare il turno».
FONTE: asroma.com