Con Liedholm come si è trovato?
«Bene, lui ci lasciava la massima libertà però se la domenica non rendevi come lui pretendeva da te, la partita dopo non la giocavi. Liedholm ti permetteva di fare qualsiasi cosa tu volessi, durante la settimana, potevi anche rientrare tutte le notti alle quattro però se la domenica non rendevi andavi fuori».
Alla Roma come si trovò? «Inizialmente non volevo andare via, stavo alla Fiorentina e con quella squadra avevamo sfiorato lo scudetto, perso con la Juve, in condizioni rocambolesche, all’ultima giornata. Stavo bene, ma ero in prestito dalla Samp e allora non si poteva rifiutare di seguire la volontà delle società. Mantovani mi disse “non posso lasciarti a Firenze , ti manderò in una squadra che vincerà lo scudetto”. Arrivai a Roma dopo i mondiali, la squadra era già in ritiro. Arrivai a Brunico a mezzogiorno e trovai tutta la squadra a pranzo. Per me fu quasi uno shock perché c’erano in tavola birre, wurstel, pizza. Io ero abituato in un modo veramente spartano e mi dissi: “se questo è l’inizio dubito che riusciremo a vincere qualcosa”».
E invece? «Pruzzo e altri giocatori mi dissero: ”guarda che qua,con noi, puoi fare quello che vuoi però la domenica se non rendi poi ne paghi le conseguenze. Perciò ti devi regolare da solo”. Insomma, il primo impatto non fu bellissimo ma dopo cominciai ad abituarmi, iniziò la stagione e le cose migliorarono. La Roma giocava a zona e io avevo sempre giocato a uomo. Liedholm che faceva provare gli schemi non mi ha mai detto niente. Come mi dovevo muovere, come dovevo interpretare la gara, niente. Allora io chiedevo agli altri ragazzi scusate cosa devo fare. Mi dissero: tu guarda noi, e così feci. Guardai loro, capii i movimenti e tutto il resto. Però Liedholm non mi disse mai come mi dovevo muovere. Non me lo aspettavo».
Come ricorda la sera della festa al Circo Massimo? «Io sinceramente non ho mai trovato un pubblico e un tifo così per una squadra. Era amore vero e la città attendeva lo scudetto da quarant’anni. Quando successe la città scese in festa, si dimenticò dei problemi che aveva e impazzì. Roma era dipinta di giallorosso. Fu un’esperienza incredibile, dai monumenti alle strisce pedonali, non ho mai visto una roba simile».
Di Bartolomei come lo ricorda? «Un bravo ragazzo, soprattutto, sempre pronto a dare una mano agli altri. Lui era un po’ scorbutico, faceva parte del suo carattere. Comunque Di Bartolomei in quella Roma era uno dei giocatori più importanti, avrebbe potuto fare il leader dietro di me, in difesa. Invece lui giocava davanti alla difesa, faceva il regista davanti alla difesa. Avevamo un uomo in più in mezzo al campo, era bravo nei lanci lunghi e quell’anno fece anche diversi gol. Una persona speciale, in campo e fuori».
Chi è oggi il centrale che le assomiglia di più, tra i giovani? «Purtroppo questo è un tasto dolente: a parte quelli in Nazionale che sono della Juventus, o lo stesso Romagnoli al Milan, i difensori di valore sono pochi. Non c’è più la scuola, io ricordo ai miei tempi che venivamo indicati all’estero come i migliori difensori del mondo. Adesso dobbiamo vedere che la Roma dietro ha tutti stranieri, lo stesso il Napoli o l’Inter. Avevamo una grande scuola ed eravamo capaci di marcare, di annullare un avversario. Ora la domenica vediamo tantissimi gol. Certo, può essere piacevole per lo spettacolo, ma per me,che ho giocato come difensore, non è piacevole vedere subire gol assurdi, perché i difensori di oggi certi movimenti non sono più capaci di farli o nelle marcature non sanno più come fare»