L’allenatore della Roma, Josì Mourinho, ha rilasciato un’intervista dove ha parlato a 360°:
C’è una sua famosa frase che dice “Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”, a questo proposito volevo chiederle se ci sono libri o un film che l’hanno accompagnata in questi anni e a cui è legato. “No, nessun film e nessun libro, semplicemente la mia esperienza di vita, la mia esperienza come uomo e come allenatore. Questa è una frase che avrà 20 anni, ma oggi è ancora più vera perché il calcio si è sviluppato in una direzione dove il lavoro di noi allenatori è sempre più complesso. Rispetto alle generazioni precedenti dobbiamo avere questa… io direi cultura generale, l’ossessione di sapere un po’ di tutto, perché veramente il nostro lavoro oggi non è solo sapere di calcio”.
Ultimamente è stata dedicata una via a suo padre, che immagino sia stato il suo primo maestro di calcio, visto che avete anche lavorato insieme. Qual è l’insegnamento più prezioso che le ha trasmesso? “Più che maestro di calcio, maestro di vita. Se oggi potessi scegliere un padre tra tutti gli uomini che ho incontrato non ci penserei due volte, lui era perfetto. La via che gli hanno dedicato è arrivata in ritardo, è un tipo di omaggio che avrebbe avuto un significato con la sua presenza. Una delle poche pressioni che sento nella vita è quella di essere un uomo come lo è stato lui. La cosa principale che mi ha insegnato è l’onestà, questo modo di vivere, di non essere falso, di non cercare di dimostrare quello che non so. Essere solo me stesso e non perdere mai la mia identità e i miei principi. Ho imparato tanto da lui, ma più nella vita che nel calcio”.
Per quanto riguarda la sua vita personale ci sono luoghi di Milano e di Roma speciali e che ama visitare? “Prima di vivere a Roma ero venuto a giocarci o l’avevo visitata come turista con la mia famiglia. Oggi passo ogni giorno attraverso i suoi luoghi storici ed è veramente speciale. Per me San Pietro sarà sempre San Pietro e il Colosseo sarà sempre il Colosseo e potrei dirne tanti altri. Milano è stata un’esperienza diversa perché il centro allenamenti è fuori dalla città e anche casa mia lo era. I miei figli in quel momento avevano 10 e 14 anni e andavano a scuola a Lugano, dove andavo ogni volta che potevo. La mia vita è stata molto più fuori che dentro Milano. Se devo scegliere qualche luogo speciale senza dubbio direi San Siro perché è stato lì che si è fatta la storia ed è lì che ho avuto il vero contatto con gli interisti e con la città. A Roma è diverso, io vivo al centro, anche questo mi aiuta a capire quanto sia speciale”.
Lei è ambassador di Hublot, l’eccellenza nell’orologeria. Per lei il tempo nel calcio è un alleato o un nemico? “Qualche volta un alleato e qualche volta un nemico, l’importante è averne sempre il controllo. Sembra un luogo comune ma è vero, se tu vinci 1 a 0 l’orologio si ferma, la partita non finisce mai, se tu perdi 1 a 0, l’orologio è troppo veloce e la partita finisce quando tu non vuoi che finisca. Però è il controllo delle emozioni che è fondamentale. Oggi dopo tanti anni il mio rapporto con il tempo di gioco è diverso, è più controllato, con meno emozione e più stabilità. Per esempio nella partita con la Salernitana (finita 4 a 0 per la Roma ndr.) siamo stati per lungo tempo zero a zero e la squadra era in tensione. Sono stato io a dire di non preoccuparsi perché il tempo avrebbe portato alla verità. Ora ho un rapporto più controllato con il tempo”.
Sappiamo che il ruolo di ambassador Hublot viene dalla sua passione per l’orologeria. Ce la racconta? “La mia passione è semplice, non sono un uomo di gioielli, ma devo confessare che tra qualche settimana mia figlia trasforma la sua azienda mettendosi a creare anche gioielli per uomini e io le ho già detto che voglio essere il primo a indossarli, e sicuramente li porterò con tutto l’amore che provo per lei. Però il mio unico gioiello, per tanti anni, è stato l’orologio, non indosso altro. Con Hublot è stato amore a prima vista anche se allora non ero un esperto. Dopo ho potuto visitare le fabbriche, ho visto come avviene la costruzione ed è qualcosa di assolutamente incredibile”.
Il suo ritorno in Italia è stato un evento tecnico, mediatico e umano fortissimo per tutti gli appassionati di calcio. Volevo chiederle in cosa si sente migliorato rispetto a 10 anni fa? “Tutto. Se un allenatore non migliora è perché ha perso passione e ha perso la mentalità di imparare ogni giorno. Non è un mestiere per cui è fondamentale l’età o la situazione fisica, al contrario dei calciatori. L’esperienza ti può solo migliorare. Io penso solo alla prossima partita. Tutti i match che hai giocato e i trofei che hai vinto, quelli sono in tasca e avrai tempo di guardarli quando hai smesso. Adesso voglio solo pensare alla prossima partita. Io mi sento molto più allenatore oggi che 10 o 20 anni fa”.
Se potesse regalare qualsiasi cosa alla Roma cosa le regalerebbe? “Titoli, perché di titoli vive una società, perché i titoli alimentano la passione dei tifosi. Ho capito subito che l’amore che si prova per la Roma va oltre i trofei, è una passione eterna, sanguigna e anche familiare. Però la vittoria è quello che manca e stiamo costruendo un progetto per arrivarci. Se arriverà con me sarà perfetto, altrimenti sarebbe bellissimo aver contribuito alla costruzione di questo futuro, che è il sogno di tutti”.
Il calcio sta stringendo sempre di più il suo rapporto con la tecnologia, non solo per il var, ma anche nel modo in cui vengono organizzati gli allenamenti e in cui gli algoritmi trovano i giocatori per le squadre. Qual è il suo rapporto con la tecnologia? “Possiamo tornare alla prima domanda che mi hai fatto riguardo alla frase “Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”. Se non sai niente di tecnologia sei indietro o come minimo non hai la possibilità di evolverti. Noi per esempio adesso abbiamo un mega schermo nel campo di allenamento, in connessione diretta con un drone che è lì durante la sessione tattica e in tempo reale possiamo lavorare e fermarci a guardare quello che abbiamo fatto. Questo è solo un esempio molto pratico di come ci aiuta in campo. La tecnologia è anche quella delle partite, dove io ricordo sempre che ho perso una semifinale di Champions con un gol fantasma, oggi avrei giocato quella finale e invece di Liverpool – Milan ci sarebbe stato Chelsea – Milan. La tecnologia ci aiuta anche nell’analisi delle partite, nello scouting e in tanti altri aspetti del nostro lavoro. Però non bisogna esserne ossessionati, niente può sostituire l’intelligenza e il know-how del cervello umano. È uno strumento prezioso e se non lo conosci sei indietro”.
Qualcuno dice che i calciatori non dovrebbero schierarsi su temi politici ma dovrebbero pensare solo a giocare. Che ne pensa di questo? “Il focus numero uno per me deve essere sempre il calcio, sia per i giocatori che per gli allenatori. Però non possiamo dimenticare la forza del nostro mondo e come cittadini dobbiamo essere liberi di esprimere le nostre convinzioni. Il calcio ha il potere di porre l’attenzione su temi come il razzismo e anche se probabilmente non sarà in grado di risolvere questa drammatica e triste situazione, ha una forza sociale enorme. Sarebbe un errore ridurre i calciatori solo all’atto di giocare a pallone. Oggi hanno la possibilità di affrontare tutte queste tematiche culturali e sociali, consci del loro prestigio e della loro influenza”.
Ormai è arrivato a Roma da un po’ di tempo, cosa ha scoperto di nuovo di questa squadra e dei suoi tifosi. C’è qualcosa che l’ha sorpresa? “Sorpreso non direi perché ho vissuto e lavorato in Italia per due anni e ho giocato contro la Roma 4-5-6 volte e si capisce immediatamente l’atmosfera che c’è qui. È una passione assolutamente incredibile quella che hanno i tifosi per la squadra. È bello, è bellissimo e non è stata una sorpresa”.
FONTE: esquire.com