Come stai?
“Bene, sto un po’ come stanno tutti quanti. Mi sento un po’ stretto, però passerà, dai. C’è gente che sta molto peggio”.
Citando l’intervista che facemmo tre anni fa, concludemmo davanti al tuo mare, a Ostia. In quella circostanza, ti strappai una promessa, che era quella di poter avere come ambizione quella di allenare la Roma. Qual è l’obiettivo adesso? Che percorso abbiamo in mente? “Ho fatto un percorso calcistico non unico, ma raro. Giocare 20 anni in una squadra non capita tutti i giorni. Non posso sognare la stessa cosa se diventerò allenatore, non esistono allenatori che resistono così a lungo. Mi piacerebbe allenare la Roma, ma prima devo diventare allenatore e per farlo c’è un percorso di crescita di cui tutti gli allenatori giovani hanno bisogno. In pochi giorni sono diventato da calciatore vecchio ad allenatore giovane, vedo le cose con una rilassatezza che da calciatore non puoi permetterti. Sedermi su quella panchina mi piacerebbe, ma non ho la fretta di farlo accadere domani. Presumo, spero succeda: succederà se sarò diventato un bravo allenatore e non per essere stato un calciatore grandissimo di questa squadra”.
In campo ti sei preso sempre responsabilità, puoi essere definito già allenatore per come parlavi dopo le partite, mettevi sempre la faccia nei momenti difficili. “Inizierò questo percorso non solo perché mi piacerebbe, ma perché penso di poterlo fare. In Italia lo pensano un po’ tutti, ma penso di poterlo fare. Sono sempre stato bravo, mi è sempre stato riconosciuto questo ruolo di leader, sarò un pochino avvantaggiato, ma l’allenatore è tanto altro, è prendere decisioni, è mettere la squadra in campo, scegliere lo staff, subire pressioni che on ho mai rifiutato, ma da allenatore sei solo contro tutti. Prendersele da allenatore… se perdi è colpa tua, se vinci sono bravi i giocatori. I nostri allenatori erano sempre sottoposti a questo tipo di giudizio”.
Quali sono state le tue sensazioni durante il giorno dell’addio? “L’ho vissuta con grande serenità, credo si sia visto. Non ho finto, mi sono emozionato in alcuni momenti, durante il match c’erano alcuni momenti di vuoto. Nelle pause mi trovavo a non dover far nulla, mi giravo e guardavo quella che era stata casa mia, pensavo che non avrei visto più quel posto da quella prospettiva. Ho fatto un percorso negli anni, mi sono detto di arrivarci pronto. Non conta a quanti anni arriva e quello che hai fatto, fa male a chiunque, senti un senso di malinconia, ma era importante per me. Avevo la mia famiglia vicino, volevo far vedere che non era una tragedia e che andavo via col sorriso, perché ero felice di quello che mi avevano fatto diventare”.
Il tuo ultimo discorso nello spogliatoio… “Non preparo niente, ci penso sempre 30-60 secondi prima. Quei bastardi dei miei compagni mi facevano un applauso anche dopo un passaggio di 5 metri (ride, ndr). Dissi loro che non era il derby del cuore, non era una partita d’addio, ma una partita di calcio, volevo giocare una partita vera. Il fatto che sia finita 0-0 (in realtà finì 2-1, ndr) voleva dire questo”.
Avevi qualche rito scaramantico? “Ne ho avuti negli anni tanti, li ho cambiati. Non servono a niente, partiamo da questo punto. Non funzionano. Quando funzionano è perché funzioni tu o la tua squadra. L’unico che non ho mai cambiato sono i tre saltelli quando eravamo tutti allineati a centrocampo. Facevo questi saltelli e mi piegavo, è iniziata tanti anni fa come a volersi sgranchire, ma non correre come me perché non vinci niente (ride, ndr)”.
Non hai scelto di abbandonare la Roma, mentre hai scelto di lasciare il calcio. La domanda riguarda entrambe le situazioni: hai più sentito i dirigenti della Roma? Che rapporto hai avuto con Riquelme al Boca? “Non ho scelto io di lasciare la Roma e ho scelto io di lasciare il calcio. Sono stati due momenti difficili, in entrambi ho dovuto prendere decisioni che non avrei voluto prendere, una volta perché aveva deciso qualcun altro e un’altra perché era la cosa più giusta per la mia famiglia. La mia famiglia ha tratto un grande beneficio dall’essere tornato a casa, a parte questi ultimi due mesi. Non ho sentito dirigenti della Roma, ne ho incontrato uno una volta, ho incontrato De Sanctis al Tre Fontane, l’altro giorno mi ha scritto un dirigente per sapere come stessi, ma se ti riferisci a chiacchierate per un futuro non mi ha chiamato nessuno. Non chiamerò nessuno neanche io. Il rapporto con Roman è stato semplice e diretto. La prima volta che l’ho visto gli ho spiegato le mie situazioni, mi sono sentito in dovere di dirgliela. Mi disse che volevano che rimanessi, che volevano mettermi a punto fisicamente e che puntavano su di me. A parlarmi era un giocatore che era stato un esempio di come si interpreta il ruolo, mi ha fatto effetto. Mi sono allenato 5-6 giorni con la squadra, mi chiedevano di rimanere. Dissi loro che me ne andavo domani, altrimenti non sarei più andato via. Lì stavo da dio, stavo troppo bene. Ho nostalgia di quel posto, di popolazione, è una nostalgia forte e pesante”.
Volevo mandarti un grandissimo abbraccio, farti i complimenti per quello che hai fatto. Sarebbe stato bello giocare insieme in un club, sarai sempre una delle poche bandiere del calcio italiano. Ti faccio un in bocca al lupo per tutto (Marchisio)”. “Intanto mi fa piacere vederlo, ci parliamo. Un ragazzo di una sensibilità differente, è uno che si prende responsabilità sul sociale. Mette bocca su cose che calciatori difficilmente fanno. Lo incontrai per la prima volta in un Roma-Empoli, lui e Giovinco ci misero in difficoltà in un modo imbarazzante. Dissi che sarebbero arrivati in nazionale. In un certo momento della carriera si è trasformato da mediano, per me era tagliato per quel ruolo. Poi ha avuto 2-3 infortuni che l’hanno bloccato, ma parliamo di un calciatore incredibile. L’Italia deve lavorare su questi ruoli, fatichiamo a trovare giocatori come lui, sembra che ora ne stiano nascendo di interessanti”.
Quanto è stata fondamentale Sarah nel tuo percorso? “Sarah ha solo questo difetto, che è molto più social di me, a volte mi giro e vengo ripreso (ride, ndr). Dal punto di vista umano è stata fondamentale, non trovi calciatore che dice che la moglie sia una zavorra. Ma è una persona che mi ha migliorato molto, come umore, stile di vita, serenità familiare. È stata in quell’unica circostanza in cui ho dovuto prendere una decisione fondamentale, mi ha detto che avrei potuto decidere io. Ovviamente c’erano destinazioni più o meno gradite, ma è stata pronta ad accettare la mia decisione di andare in Argentina. Si è innamorata dell’Argentina prima ancora di me, e non mi ha messo il muso quando ce ne siamo andati. In pochi mesi aveva creato una casa e una famiglia a Buenos Aires. Quando dico che abbiamo fatto fatica parlo di questo. Guardavamo la Casa di Carta, un personaggio ha detto due parole argentine: ci siamo guardati e ci siamo detti quanto ci manca. Ci è entrato nel cuore, ma mi ha dato ragione nel tornare a casa”.
Perché il Boca? “Vorrei sapere se sto parlando con uno dei più grandi opinionisti o quello che fa le rovesciate sul letto. Ho scelto il Boca da ragazzino, vedendo il tifo, vedendo Maradona, che è stato uno dei miei idoli. Mi sono appassionato a lui, alla squadra e poi è tutto virato per questa tifoseria. Tutti la conoscono, ma nessuno la conosce. Non so chi sia il mas grande, ma chi dà mas amore è il Boca”.
Cosa hai trovato a Buenos Aires di diverso da quel che ti aspettavi? Cosa vorrai condividere con i nuovi allievi di questa esperienza? “L’esperienza è stata meravigliosa, ma non solo dal punto di vista umano. Ho imparato tantissimo e mi sono reso conto di quanto talento, senza organizzazione, vada sprecato. Bisogna organizzarli per farli suonare insieme in campo, altrimenti diventa una sorta di confusione, bella da vedere, ma sempre confusione. Far coesistere queste meraviglie, questi mancini che cantano, questi giocatori ruvidi ma tecnici, sarebbe il primo passo di qualunque squadra. Un allenatore c’è riuscito, Gallardo c’è riuscito, ha giocatori fortissimi e ne aggiunge un altro ogni volta che ne perde uno. Speriamo che l’ultima giornata dell’ultimo campionato sia stata destabilizzante per loro. Se l’Argentina ci riuscisse come nazionale, cambierebbero le sorti del calcio mondiale. Hanno talento esattamente come il Brasile”.
Quanto è stata importante la figura di Lippi in Germania? “Ovviamente l’hanno detto un po’ tutti, non posso non ricordare quanto Lippi fu importante. Una nazionale con grandissimo talento, con giocatori mostruosi, ma non era la nazionale più forte: il Brasile era più forte. Vincemmo perché fummo grandi lottatori, ma perché lui dal primo giorno, creò una squadra di club, che in nazionale non è mai facile. Ti vedi una volta ogni 30 giorni, ognuno ha i suoi malumori. Lui creò un gruppo di amici in due anni, poi l’ha gestita bene anche a livello tecnico-tattico, ma ha creato un qualcosa di diverso. Quella nazionale partiva con grande pressione, grande importanza per quel trionfo e per me, se non ci fossero stati 60 minuti e i rigori in finale l’avrei assaporato con un sapore agrodolce. Ho sempre sentito la sua fiducia, anche quando era incazzatissimo, anche quando ero squalificato. Ho sempre sentito che qualora ci fosse stata l’opportunità di rientrare la’vrei potuto fare. Peruzzi mi disse che mi voleva ributtare dentro in finale. Partivo come un panchinaro che doveva fare il suo di lì a poco, così fu e rimane il ricordo più memorabile della mia carriera calcistica”.
Un altro allenatore importante è Heinze. Lavorando sul fatto che andrai a documentarti, quali sono i primi 2-3 appuntamenti che pensi di avere in agenda? La partita con l’Atletico Tucuman l’abbiamo messa in preventivo, campiamo di rendita dal 9 dicembre 2018… “Gabi Heinze è un allenatore interessantissimo, andando in Argentina e avendo opportunità di vedere partite a ripetizione ho potuto vederlo. Aveva giocatori interessanti al Velez, lui è andato via, parlando con un DS italiano si sa anche in Europa quanto sia bravo. Sarei contento se si riaprissero per lui le porte del calcio europeo. Crespo mi ha impressionato al Banfield, una squadra medio piccola che ci ha messo in grossa difficoltà. Penso che avrò bisogno di sentire tutti, mille allenatori, di scrutarli, posso imparare da tutti. C’è un proverbio africano che dice che un bambino in piedi non riesce a vedere dove vede un vecchio seduto. E io sono un bambino. Chi si affaccia a questa professione, se può partire dal migliore di tutti e non lo fa sbaglia. E il migliore è Guardiola: se avrò opportunità partirò da lui. Poi ci sono allenatori bravi in Italia, Gattuso, De Zerbi che mi fa impazzire. Tanti, dai quali devo imparare molto. Saranno viaggi professionali e di divertimento. Andrò a vedere allenatori di altri sport, voglio contattare Pozzecco per il rapporto che hai coi giocatori. Le dinamiche penso che siano simili. Avrò un bel giro da fare. Se non imparerò niente perché sono un asino, almeno mi sarò divertito. La terza: chi è del Boca è sempre la festa dopo la partita con il Gimnasia. Ma anche quella dopo la semifinale persa: in piedi, occhi lucidi e saluti. Non mi voglio attribuire il titolo di argentino, ma un amore così è solo da applaudire”.
Ci racconti del trucco e parrucco per mimetizzarti in Sud nel derby? “È nata come una battuta, uno scherzo. Avevo questa grande voglia di andare in curva, ma senza essere preso in braccio tipo Oronzo Canà, volevo passare in osservato. Inizialmente volevo andare a Firenze, ma la Roma arrivava da una serie di vittorie di fila e scaramanticamente non andai. Fu l’unica maniera per poter passare inosservato. Un ragazzo dietro di me mi ha riconosciuto dopo un secondo e lo ringrazio per avermi permesso di godermi lo spettacolo”.
Qualche tempo fa mi hai detto che il giorno più difficile sarebbe stato l’ultimo a Trigoria. È stato davvero così? “Voglio chiarire una cosa. È stato il giorno più difficile della mia ultima esperienza. Non significa che abbia smesso a Roma, non è stato lasciare la Roma, ma chiudere quella porta per l’ultima volta. È stato difficile, io lì dentro non ci rientrerò più, perché è la camera dove ho dormito di più in vita mia, è un posto che non rivedrò mai più. È stata una bella botta, un momento nel quale mi hanno tremato più le mani”.
Qual è la difficoltà principale che ti aspetti per cominciare la carriera da allenatore? Ho sentito nomi di allenatori che pensi di andare a vedere, tutti abbastanza innovativi. Come giudichi il livello del nostro calcio rispetto alle nuove proposte dal punto di vista tecnico-tattico? “Difficoltà ne incontrerò, mi aiuto da solo pensando così. Non so se so fare alcune cose: dovrò organizzare un precampionato, formare uno staff, parlare alla gente da un’altra prospettiva. Tutti ti devono seguire, magari inizierò da un livello più basso di quello che ho vissuto da calciatore e dovrò accettarlo. Difficoltà che spero di superare. Riguardo gli allenatori, ho citato allenatori innovativi, ma devo imparare tanto dagli altri, più pragmatici. Il livello del calcio in Italia si sta direzionando verso lo spettacolo: la sensazione è che anche le piccole squadre abbiano iniziato a proporre qualcosa di interessante. Il Barcellona di Guardiola ha cambiato la percezione del calcio, il pericolo è abusarne, abusare del palleggio e di idee propositive quando la squadra non è all’altezza. Posso citare altri allenatori, come Fonseca. Mi complimentai con lui dopo Roma-Shakhtar, mi aveva fatto una grande impressione”.
Da chi rubiamo qualcosa di quelli che hai avuto? “Non voglio dare risposte paracule, ma devo rubare da tutti, anche da chi mi è piaciuto di meno. Si ruba anche cercando di non ripetere errori gravi. Se penso a chi mi ha segnato penso a Spalletti, insieme a Luis Enrique. Come gestione del gruppo sono un tranquillone, ma un pizzico di atteggiamento à la Capello non guasta mai”.
Quale soprannome ti è pesato di più? Capitan Futuro o Nino? “Questo non è di Roma, è di Ostia! Da piccolo avevo questa scodella bionda, a Roma non c’è nessuno che non abbia un soprannome, ero Nino riferito a Nino D’Angelo, finché non sono diventato Capitan Futuro”.
Hai avuto modo di pensare ai tuoi progetti tecnici? Puoi raccontare il primo giorno al campo di allenamento del Boca? “I progetti sono tutti in stand-by. Pensare a queste cose in questo momento non mi sembrerebbe giusto. Ho grande voglia di fare questo lavoro, ho fretta, smanio, ma mi sento circondato da un alone di tristezza, di difficoltà, di tutto il mondo. Andare a pensare al corso, alle squadre mi sembra un po’ ridicolo. Il primo giorno, non ricordo se fosse il primo o il secondo, facemmo questa partitella. Ero abituato ai Primavera della Roma, che tendono a levare un po’ il piede. Ci fu questo contrasto con questo torello di 170 cm per 100 kg e mi ha ribaltato, un animale. Si è subito fermato, pensando di fare qualcosa di male, gli dissi di continuare così. Da loro era inverno, campo fangoso, il paradiso”.
Ricordi quando ti ho tirato la scarpetta? Raccontalo! (Domanda di Bonucci)… “Questa è lunga. Parliamo di un ragazzo del quale tutti i miei conoscenti mi dicono che è odioso. C’è una percezione di Leo che è totalmente sbagliata. Un professionista incredibile, mi spiace che si pensi che sia antipatico. A volte lo è in campo, ma è frutto della maglia che indossa, quella squadra ti dà quell’impostazione là ed è un motivo per cui vincono sempre. In allenamento lui mi tirò uno scarpino, che slittò e mi prese col tacchetto. La cosa era diventata un po’ meno scherzo, poi dopo un minuto passò tutto. È uno dei ragazzi che ricordo con più piacere, quel tavolo era una bolgia. Grandi momenti insieme”.
Hai un rammarico in carriera? “Senza entrare nel dettaglio: non aver vinto qualcosa di importante, di strappalacrime, con la Roma. Ieri vedevo uno speciale su Di Bartolomei, o lo scudetto di Francesco. È un rammarico grande. A volte vengo tacciato di aver avuto poche ambizioni, ma ho avuto l’ambizione di provare a vincere dove non si vince mai, in una squadra meno forte delle sue avversarie. Mi sento in pace con la mia coscenza, ma il rammarico c’è. Le cose non vanno sempre come uno spera. Se guardo la mia carriera sono fortunato, se guardo la bacheca è abbastanza vuota e mi dispiace”.
Al calcio inglese? Ci hai fatto qualche pensiero? In che squadra ti saresti visto? Con Roy Keane o con Paul Scholes? O con Gerrard? O con Mourinho, insieme a Lampard? “Risposta secca: da quando sono piccolo ho sempre amato molto il Manchester United. Proprio perché mi ha citato loro è giusto che non ci sia andato. Riguardo al Boca, era proprio un mio desiderio. A posteriori era fare un paio di stagioni delle mie, con 50-60 partite in quello stadio, con quella maglia”.
Potrai prendere tantissimi spunti negativi dai miei allenamenti. Vieni a vedere un mio allenamento, fai esattamente il contrario e hai successo (ride, ndr). È giusto dirti che le porte sono aperte, puoi venire quando vuoi e speriamo che tutto ciò accada presto, in una situazione migliore di quella di oggi (Domanda do Pozzesco)… “Che dire, mi fa un grande effetto. Sono un appassionato di basket, è stato sempre una sorta di punto di riferimento, mi è sempre piaciuto tantissimo vederlo. Da allenatore sta facendo grandi cose, non devo vedere come spiega il pick’n’roll, ma come interagisce con i giocatori. Sarà un bel viaggio, con lui non mi annoierò sicuramente”.
Cosa ci lascerà un momento del genere? Come ripartire? “Penso che porteremo via da questo momentaccio delle cose positive se in questo momento remeremo nella stessa parte. È adesso che dobbiamo sentirci sulla stessa barca, tra nord e sud c’è una differenza gigante. Penso che questo popolo possa risollevarsi, una delle cose più intelligenti la disse Balotelli, prima di politici e dottori: ha detto di avere una madre di una certa età e che non le vuole attaccare nessuna malattia. È facendo le cose normali che ne usciremo, poi ci sono scienziati e politici che si devono occupare di cose più importanti. Siamo una popolazione che ha sempre dimostrato di avere la pelle dura”.
FONTE: Sky Sport