Il 22 dicembre, Alcides Ghiggia avrebbe compiuto 94 anni. Fu l’eroe del Maracanazo: nel 1950 segnò il gol vittoria al Maracanà, regalando il Mondiale all’Uruguay e gettando nella disperazione un Brasile che già pregustava il trionfo.
Questo dà l’idea del grandissimo colpo di mercato che il presidente della Roma, Renato Sacerdoti, annunciò il 31 maggio 1953 ai soci, riuniti in assemblea al Teatro Sistina.
Che giocatore era Alcides Ghiggia? “Un calciatore moderno: dava spettacolo e il pubblico per questo lo adorava. Era in anticipo sui tempi. Era molto veloce, era molto abile con la palla tra i piedi. Gli piaceva dribblare i suoi marcatori. Non faceva tanti gol, ma gli piaceva che li facessero i compagni. Ha sempre pensato alla squadra. Al club. Alla sua amata Roma. Non so se sia stato un grande giocatore o no. Per me sì, lo è stato”.
Cosa lo spinse a venire a Roma? “Papà venne espulso nel derby Penarol-Nacional e l’Associazione calcistica uruguaiana lo sospese per un anno. Per un calciatore, restare fuori dal campo per quel periodo così lungo era una spesa insostenibile. E in più papà amava il calcio. Dico sempre che il suo gruppo sanguigno era C, Calcio. In quel momento si presentò la Roma”.
“La Società parlò con lui e con il Penarol, la squadra in cui giocava papà. Per lui significava continuare a giocare a calcio. Andare in Italia, e soprattutto nella Capitale, sarebbe stato per lui un grande riconoscimento”.
“Fu felice di trasferirsi anche per le sue radici, per la sua discendenza italiana. Giocare nella Roma, la squadra della Capitale, era un sogno che si realizzava. Posso affermare con certezza che la Roma è stato il suo amore. Un amore inseparabile. Sono rimasti uniti fino al suo ultimo giorno di vita”.
Suo padre la chiamò Arcadio in omaggio a Venturi: come nacque questa grandissima amicizia? “Quando papà arrivò a Roma, si ritrovò da solo in un Paese che ancora non conosceva. Il capitano della Roma, Arcadio Venturi, lo trattò come un fratello e riuscì a non farlo sentire uno straniero in Italia. Papà si trovò così bene che, in virtù di quella amicizia, mi battezzò con il nome del suo amico Arcadio. Per me è stato un grande onore scoprire questa storia”.
Si dice che Alcides, dopo avere smesso di giocare a calcio, avesse aperto un’attività commerciale a Roma. “Che io sappia, non è vero. Dopo avere giocato per una stagione nel Milan, nel 1962 papà tornò in Uruguay. Arrivato a Montevideo, fu convocato dalla federazione uruguaiana per una partita di beneficenza contro il Brasile 1950. Il ricavato sarebbe andato all’Opera Don Orione”.
“Dopo quel match, i dirigenti del Danubio vennero a casa nostra per chiedergli se volesse ancora giocare a pallone. Lui gli rispose: Va bene, ma guardate che ho 37 anni… Gli dissero: Ghiggia, noi l’abbiamo vista in campo e lei è perfettamente integro. E così mio padre giocó fino a 42 anni, finendo al Danubio la sua carriera”.
In Uruguay, papà continuava a tifare per la Roma? Riusciva a vederla in televisione? “Chiaramente, sì. Papà tifò sempre per la Roma. Era la sua squadra. Era il suo amore. E ogni volta che poteva, la vedeva in televisione. Ripeto: fino al suo ultimo giorno di vita, il suo pensiero era ROMA. Sia la squadra, sia la sua città. Ogni volta che chiacchieravamo di calcio, la Roma era un argomento di discussione”.
La Roma le è rimasta nel cuore… “Sono romanista da quando ero piccolo. Anche per me, Roma è il massimo. Sia la squadra, sia la città. Io sono nato a Roma e la porterò sempre nel mio cuore”.
Quale giocatore romanista le ricorda maggiormente suo padre? “Papà mi parlava sempre di Totti. Per lui, era un calciatore completo”.
FONTE: asroma.com