Sintonizza il canale giusto in 100 giorni, istruzioni per l’uso. Tanti saranno sabato contro il Napoli, riavvolgendo il nastro all’indietro fino al 7 luglio, la partenza del ritiro. Sufficienti, questi tre mesi e un pezzetto, a Eusebio Di Francesco per scoprire e capire un mondo Roma che è totalmente diverso da quello che aveva lasciato da giocatore prima e da team manager poi. Ha conquistato un gruppo che voleva annusare l’aria, com’era naturale fosse, a maggior ragione se esci da un’avventura totalmente avvolgente qual è stata quella con Luciano Spalletti. Ha imposto con modi gentili la sua metodologia di lavoro, usando la via del dialogo e non quella del fisico coinvolgimento. E ha colmato – è più giusto dire sta colmando, il processo è ovviamente ancora in corso – alcune lacune tattiche. Il Napoli di sabato vale per Eusebio la più scontata delle prove del nove. Vale il biglietto per salire su un treno per i più inatteso, anche se lui – che pure non s’è mai posto un limite – non lo confermerà mai.
ZERO ALIBI – Magari non confermerà mai neppure di aver voluto strategicamente togliere qualsiasi tipo di alibi ai calciatori. Lo raccontavano zemaniano, Di Francesco si comporta come Fabio Capello, l’uomo più filosoficamente distante dal boemo, il tecnico con cui Eusebio ha vinto lo scudetto da calciatore. In una città che rimugina un minuto sì e l’altro pure su quanto sia difficile lavorare e vincere a Roma – ritornello che ha fatto comodo a molti, non ultimo Spalletti quando c’era da giustificare una scelta già presa, l’addio –, DiFra è passato oltre e s’è dichiarato autoimmune, responsabile lui in toto dei risultati, senza alibi di vario genere. C’è da dire, per la verità, che anche Spalletti aveva provato a iniziare la sua seconda era romana in questo modo, «costruiamo lo stile Roma» e queste storie qui, salvo poi fare inversione a U. DiFra oggi ha indicato la via e non vuole abbandonarla. Il messaggio, più che all’esterno, è diretto all’interno dello spogliatoio e del centro sportivo tutto: non si cerchino scuse in giro se le cose non dovessero andare bene.
DIALOGO – Punto secondo, la conquista dello spogliatoio. Di Francesco s’è trovato davanti quella montagna da scalare tipica di un tecnico che arriva da un club di provincia dentro un gruppo di lavoro abituato certo non a vincere, ma a stare ai vertici sì. Qualche crisi di rigetto c’è stata, prove estive allarmanti, la partita con l’Atalanta negativa sul piano della prestazione, alcuni big – non solo Nainggolan – che avrebbero dovuto cambiare modo di giocare, alla faccia degli 87 punti dello scorso campionato. Di Francesco ha superato le perplessità capendo che le proprie idee andavano adattate alle qualità della rosa. L’allenatore ha ribaltato tutto nel momento più difficile, la difesa a tre contro l’Atletico Madrid: da quel giorno sono seguiti Nainggolan spostato all’occorrenza trequartista, il ruolo di Florenzi, l’apertura – per ora a parole – a un cambio di modulo quando avrà Schick.
DIFESA – E poi, l’aspetto tattico. DiFra sta curando l’assetto difensivo molto più di quanto abbia fatto Spalletti nella sua seconda stagione, quando – raccontano a Trigoria – aveva abbassato l’attenzione rispetto ai primi giorni del post Garcia. La sfida più grande col suo specialista migliore: sembra un paradosso, ma la crescita di Manolas da giocatore «individuale» a difensore di squadra è un processo che il tecnico s’è messo in testa di percorrere. Processo che magari porterà – non a caso – pure al rinnovo del contratto del greco. E che ha prodotto 4 partite su 6 in A con la porta inviolata: Spalletti, un anno fa, raggiunse lo stesso numero alla 12a giornata.