Il resiliente non vuole seguire modelli diversi dal suo: «Io sono Difranceschiano». Come non bastasse portarsi dall’anagrafe un quadrisillabo che non aiuta né titolisti dei giornali né coristi da stadio, e quindi quasi tutti quelli che potrebbero dilatarne la fama, Eusebio nostro arriva pure ad aggettivarsi il cognome fino a farne una categoria specifica.
Il fatto è che assurgere a categoria potrebbe prefigurare un rigurgito di presunzione che non gli appartiene. E a ben vedere, il senso del suo paradosso va in tutt’altra direzione. Chiamandosi fuori dai modelli che vorrebbero fargli indossare, Eusebio rivendica proprio l’umile tentativo di cercare una strada propria, e nell’attesa restare quieto. Perché è bastato associare il suo 4-3-3 all’impronta che potrebbe avergli lasciato uno (Zeman) dei pochi allenatori naif che ha avuto nel corso della carriera da giocatore (gli altri sono Orrico, Scoglio e Galeone) per giustificare ogni eventuale defaillance difensiva col cliché pronto per la stampa: la Roma prenderà un gol per una marcatura poco attenta? Colpa dello zemaniano Di Francesco. La Roma ha la linea alta del fuorigioco (cosa che finora le ha consentito di finire tre partite su quattro ufficiali senza subire reti)? Retaggio di Zeman.La Roma non ha voluto comprare un difensore in più? Certo, per Zeman uno vale l’altro. Schick giocherà alla destra di Dzeko con un altro attaccante a sinistra? Integralismi boemi.
Non è offensivo per Di Fra, magari neanche per Zeman, che pure ai tempi belli smuoveva frotte di allenatori desiderosi di imparare qualcosa di schemi offensivi che tuttora sono considerati moderni: il paragone facile degli opinionisti dal pensiero (tattico) corto dovrebbe risuonare offensivo per tutti gli allenatori che hanno avuto il giovin Di Francesco alle loro dipendenze e non sono riusciti,a quanto pare, a lasciar la benché minima traccia. Vabbé, magari ha avuto tecnici di secondo livello. E invece se apriamo l’album dei ricordi del resiliente di Sambuceto, salta fuori che gli italianisti li ha avuti quasi tutti: da Salvemini a Simoni, da Fascetti a Novellino, da Agostinelli a Menichini (lo scudiero di Mazzone), da Sonetti agli indiscussi re del calcio tradizionale italiano,Capello e Lippi, quelli per cui vincere è l’unica cosa che conta. Eppure, tutti dimenticati. Basta una diagonale difensiva fatta male ed è pronto l’insulto: «Zemaniano dei miei stivali».
Lui dev’essersi stufato pure di provare a ribattere: «Ma se non hanno mai visto neanche un’esercitazione difensiva?». Certo, troppa fatica, hai visto mai che tocca studiare? Meglio la patente tarocca. E allora a noi romanisti, che osserviamo e aspettiamo, che amiamo e rispettiamo, a noi nessuno ci leva dalla testa che Di Francesco ha bisogno solo di lavorare e di veder maturare i frutti della semina. E in attesa di dimostrare che un posto tra i tecnici più bravi magari potrebbe pure ritagliarselo, gli stiamo al fianco, in silenzio, speranzosi e fiduciosi. Anche noi siamo difranceschiani. Anzi, se non si offendono né Conidi, che ci ha scritto una bellissima canzone, né l’originale destinatario della stessa poesia, Anche io sono (Di) Francesco.