Professor Rossi, partiamo da Vermaelen e la pubalgia: quali sono le terapie più indicate per combatterla?
“Innanzitutto bisogna fare una diagnosi di certezza, perché pubalgia è un termine un po’ generico che comprende una iniziale sindrome che coinvolge gli adduttori e che, se non viene curata adeguatamente, è un problema che passa ai muscoli sovrapubici e quindi si trasmette da un lato all’altro, diventando una pubalgia completa. Un lato rimane sempre più grave dell’altro e la diagnosi si fa essenzialmente con l’esame ecografico, oltre che clinicamente. A seconda del livello di agonismo, da quanto tempo uno ne soffre, dal tipo di pubalgia – se interessa un solo lato o no -, oggi ci sono tantissime tecnologie: la più conosciuta è la tecarterapia ma funzionano molto bene il laser ad alta potenza, la vibrazione nella modalità di neuromodulazione – che toglie l’informazione che arriva dal dolore e la cambia e cambia anche il modo di muoversi delle fibre muscolari-; funziona molto bene la FREMS e le macchine che veicolano farmaci in profondità, per cui uno può veicolare del cortisone che non tende a precipitare e magari utilizzarne l’effetto; qualcuno fa delle infiltrazioni – a me non piacciono – però è una metodica anche quella di infiltrare direttamente con del cortisone le inserzioni dei tendini. Poi in casi estremi ecco che può essere ipotizzabile una soluzione chirurgica, in cui si sposta l’inserzione del tendine in una posizione più neutra e non renderlo sovraccaricato. Questa però è una soluzione estrema e spesso non risolutiva: abbiamo casi di giocatori plurioperati – vedi Balzaretti – che poi non sono più tornati a fare attività ad alto livello. Possono condurre una vita di tutti i giorni ma non quel carico di sollecitazioni che hanno i giocatori”.
Nei soggetti a rischio c’è un modo per prevenire la pubalgia? “La pubaglia va prevenuta impostando il paziente dal punto di vista della postura generale, perché spesso dipende dal mancato equilibrio di lavoro muscolare tra le catene muscolari posteriori e quelle anteriori del nostro organismo. Quindi una corretta postura della colonna fa sì che si possa prevenire un carico sbagliato e l’insorgere della pubalgia. Quando ciò accade i muscoli della catena anteriore lavorano in un modo che non compete loro e i tendini si infiammano: i tendini non sono elastici, sono rigidi, quindi dopo un po’ non sopportano più queste sollecitazioni e iniziano a produrre dolore. Il problema è che quando comincia il dolore l’infiammazione al tendine è già iniziata e si è già di fronte a una situazione cronica. L’antinfiammatorio per poco e simili non hanno nessun effetto”.
Alla luce di ciò, quando la pubalgia è in via di guarigione è consigliabile un rientro graduale all’attività ad alto livello? “Bisogna sempre tenere presente questo concetto: la guarigione clinica è una cosa, quella che porta al gesto sportivo è un’altra. Può servire un 10-15 giorni di gradualità al recupero della capacità di sopportare certi carichi: la struttura appena guarita non ha la capacità di sopportare 90 minuti di partita di calcio. Altrimenti c’è il rischio di una nuova infiammazione ed è un rischio dietro l’angolo di tutte le patologie ai tendini. Bisogna far capire al paziente che quelle due settimane di stop in più servono a tenerlo al riparo per il resto della carriera”.
Rüdiger e Mario Rui hanno subito la lesione del legamento crociato anteriore del ginocchio. Per il primo il rientro pare imminente: ha la sensazione che siano state bruciate le tappe rispetto alla iniziale tabella di marcia? “C’è innanzitutto da considerare sempre l’individuo Rüdiger, che magari ha una capacità di recupero maggiore rispetto a un altro. Al di là dell’intervento effettuato per lo stesso infortunio, dallo stesso chirurgo, con la stessa tecnica, il recupero può variare. Chiaro che un ragazzo di 20 anni che dedica l’intera giornata al recupero dell’articolazione infortunata sicuramente ha dei tempi più rapidi. E secondo me siamo tutto sommato nei tempi, perché 4-5 mesi sono quelli che di solito, dopo un intervento di ricostruzione del crociato, sono necessari per il rientro in campo senza pericoli. I 90 giorni sono quelli considerati definitivi per l’attecchimento biologico del trapianto, quindi dopo di quello si può cominciare a forzare e in un altro mese e mezzo di lavoro ci siamo. Ci sono poi due metodiche di ricostruzione del legamento crociato: la metodica del tendine rotuleo, che è quella che ha fatto Rüdiger in quanto Mariani utilizza quella; c’è poi la metodica del semitendinoso e gracile che alcuni considerano un pizzico più veloce perché qualche volta il tendine rotuleo, nel corso della riabilitazione, dà dei problemi di tendiniti e tendinopatie. Per fortuna nel caso di Rüdiger questo non è avvenuto e ci possiamo aspettare che anche per Mario Rui i tempi siano sostanzialmente gli stessi”.
Quindi per Mario Rui non vede un rallentamento nel recupero? “No, direi di no, a quanto si apprende dai giornali”.
Per questo tipo di infortunio quanto è alto il rischio di ricadute? “In una lesione del crociato una ricaduta è abbastanza rara. L’obiettivo dell’intervento è rimettere il ginocchio esattamente nella stessa condizione fisica rispetto a com’era un minuto prima di rompersi, quindi al 100%. Un trauma che rompe un crociato è una torsione del ginocchio in cui si arriva a sopportare carichi che sono fino a 4-5 volte il peso del corpo: dovendo sopportare 400-500 chilogrammi in torsione il legamento non ce la fa. Dunque o subisce una cosa brutale del genere oppure per il resto è da cosiderare guarito al 100%, senza nessun rischio. L’incognita è la stessa con cui si potrebbe rompere l’altro legamento, quello sano. L’unica cosa è che alla distanza avrà problemi di artrosi perché l’intervento di fatto è un altro trauma – seppur a fin di bene – e quindi anche quello va considerato”.