In piedi. Tutti e sessantaduemilatrecentoquattro. Più chissà quante altre centinaia di migliaia fuori dallo stadio. Omaggio minimo a una storia immensa, mentre la terra cominciava a mancare sotto quei piedi e in ginocchio c’era un gigante che la baciava. Nessuno scambio di ruoli, semplicemente il naturale sfociare di un’identificazione perenne fra De Rossi e la sua gente. «Il nostro io in campo» recitava uno dei tanti striscioni che gli sono stati dedicati domenica sera, quando durante la partita l’attenzione era tutta catalizzata da lui e ogni suo tocco di palla era sottolineato da applausi e le immancabili scivolate da veri e propri boati.
La gara seguita come cornice di un evento al quale tutti hanno voluto assistere, senza averne davvero voglia. Sperando anzi di differirlo nel tempo il più possibile, privo di ragioni com’è ancora adesso. La prima e forse unica distonia fra il Capitano e i tifosi è stata nelle reazioni. Almeno quelle apparenti, visibili. Quando a uno stadio in lacrime ha fatto da contraltare il sorriso di Daniele. Come se in quel momento fosse stato lui a caricarsi sulle spalle tutti, a consolare ognuno dei presenti. Che è poi un gesto usuale, quasi quotidiano, della sua intera carriera.
Il sostegno a chi lo ha sostenuto. Un supporto esteso anche ai compagni, in modo particolare quelli che attraversavano momenti difficili, tanto da essere sempre stato considerato un leader naturale, ben prima di indossare la fascia. Al di sopra di ogni sospetto, le recentissime parole di Totti: «Era un Capitano già quando c’ero io». Sembra una vita fa, invece sono soltanto due anni che due esistenze quasi simbiotiche hanno avuto il primo distacco. (…)
FONTE: Il Romanista – F. Pastore