Altro che indolore. La sconfitta a Plzen (2-1) ha piombato la Roma in una nuova dimensione della propria crisi. Quella dei processi sommari e delle accuse velate. Non è certo l’aver spalancato l’Europa League al Viktoria ad accendere il focolaio: è l’incapacità della Roma di mostrare anche il minimo segnale di vita ad aver prodotto conseguenze complicate da riassorbire. Il tracciato è piatto da un mese, trascorso senza lo straccio di un sorriso, e Di Francesco sentendo la terra mancargli sotto i piedi pare quasi prepararsi alla resa: «Partite così ti spingono a fare riflessioni personali». C’è chi a sentirlo pensa all’idea delle dimissioni, chi invece è convinto si senta tradito. Come pure Manolas: «Gol come quelli che abbiamo preso li incassano le squadre giovani, difendiamo solo in quattro, non siamo all’altezza». E indizi in questo senso sembra offrirne pure Florenzi: «Tutti, a Trigoria, devono andare nella stessa direzione».
La prossima, di direzione, sarà Boston: il ds Monchi sarà lì lunedì per parlare con il presidente Pallotta del futuro, ma la spettrale Roma di oggi costringerà anche a forti riflessioni sul presente. Il manager spagnolo è ancora dalla parte dell’allenatore. Ma di fronte a lui si sta spalancando un bivio: iniziare a valutare un piano B, ipotesi che ha sempre rigettato, o correre il rischio di non poter più essere lui a decidere della guida tecnica della squadra. Anche perché poche ore prima della missione americana la Roma giocherà col Genoa una partita che ha già oggi il sapore del redde rationem: di fronte a un altro crollo sarà difficilissimo per Monchi difendere la posizione del tecnico di fronte al presidente furioso. Che fino a oggi, al netto di sproloqui via sms anche durante le partite e di epiteti pesanti all’indirizzo della squadra («barzelletta», «disonore») ha lasciato interamente in mano al dirigente la questione. Ma alle spalle ha chi sponsorizza Paulo Sousa, e la settima sconfitta stagionale in 21 partite, una ogni tre, offre elementi sufficienti per fargli pensare che possa valere la pena ascoltare.
In realtà, sul tavolo c’è una partita anche più importante: quella per il futuro a medio termine. Il club è sempre più indipendente economicamente, visto che anche senza l’indotto della Champions eguaglierebbe o quasi il fatturato di due anni fa. Ma in un anno la Roma ha quasi raddoppiato i costi: ha speso tanto, ma quegli investimenti rischiano di venire zavorrati dalle prove disastrose di Schick, ormai incapace anche di tirare in porta, o Pastore. Acquisti cari e finora improduttivi. Il rischio, oggi, è che senza la Champions la squadra attuale vada pesantemente modificata: perché il giocattolo costa caro e senza i soldi della Champions sostenerlo sarebbe impossibile. Eppure ieri mentre la squadra sprofondava sotto i colpi di carneadi come Chory o Kovarik, i 600 arrivati a alla Doosan Arena se la prendevano proprio con il presidente, srotolando uno striscione che lo esortava a cambiare hobby: «Pallotta, go home». Per ora, a casa sua andrà Monchi per quel punto programmatico. Sempre che la partita col Genoa non lo trasformi in un processo.