Giuliano Taccola era il nostro Sessantotto. I nostri sogni, la nostra rivoluzione. Aveva l’età di uno studente da poco fuori corso ed è l’età che avrà per sempre da quel 16 marzo 1969. Il 24 settembre del ’67 aveva segnato alla prima partita in serie A con la Roma, a San Siro, con l’Inter, dopo un gol di Facchetti, a Sarti, il portiere col quale iniziava una filastrocca tuttora in voga. Lui invece non sarebbe mai diventato di moda. Veniva da Pisa, da Uliveto Terme, in un paesino dove mille abitanti su milleduecento si chiamano Taccola, da tacca, magagna, vizio. Uno su mille ce la fa. Chissà che significa veramente.
Era cresciuto al Genoa, come Gigi Meroni. Volava. Era leggero. Segnava. A San Siro era stato un balenio, perché è dell’Olimpico che sarebbe diventato la luce. Il 31 dicembre 1967 col Brescia fa una doppietta davanti ai tifosi innamorati di lui, la Roma è seconda, Taccola è il suo capodanno, la sua speranza. Il giornalista Cesare Lanza per definire il suo gesto atletico scrive che: «è lacerante come un grido di rabbia a pieni polmoni».
La stagione dopo, alla prima partita fa un gol dopo trenta secondi alla Fiorentina il primo gol di tutto il Campionato. Un altro balenio. Ne farà sette in dodici partite, e chissà quanti inutili articoli si farebbero oggi sulle sue medie, senza riuscire a restituire mai la poesia dei gesti e della felicità che promettevano. Era già il ’69. Cinquant’anni fa. Era ancora il nostro ‘68. Era la nostra rivoluzione, i nostri sogni. I tifosi una volta lo andarono a prendere di ritorno da una trasferta vittoriosa per portarlo in trionfo alla stazione Termini. Il «Corriere dello Sport» titolava quel giorno: “Mai la Roma così grande”. Avevamo vinto 1-0 a Torino contro la Juventus, grazie a un gol di Capello dopo un’azione in contropiede di Taccola. Era i nostri capelli al vento, lui aveva dato il suo profilo alla vita: figlio di un venditore ambulante, a quindici anni era scappato da casa per inventarsi una vita in Liguria col pallone, era un ribelle, e i ribelli alla vita fanno gol o dribbling e amano. A diciassette anni si innamora, a diciannove si sposa, si chiama Rosa il suo amore; quando arriva a Roma,
Giuliano è papà di due bambini. A Roma Taccola sembra una rivoluzione riuscita. La nostra. Non era ancora una storia sbagliata la sua, ma stava già ai bordi del cuore. Aveva l’età di uno studente, ma purtroppo stava per diventare un eroe. Fragilissimo. Poetico. Lieve. Assurdo. Come quando una linea di febbre diventa più netta di quella dell’orizzonte. Arriva la febbre. Se ne va e poi ritorna. La febbriciattola infame. Il problema sono le tonsille. Si decide che vanno tolte. Non può essere questo l’ostacolo al tutto che lo aspetta. Dopo l’operazione si riallena che è nemmeno un mese, avrebbe dovuto forse riposare di più. Senza forse. I forse arrivano tra un po’. Era sottopeso, non aveva lo smalto del toscanaccio sveglio che era sempre stato. Il medico gli consiglia di andare a riposare in montagna. Non è in forma. Le tonsille non ci sono più ma lui non sta ancora bene. Ma Giuliano Taccola mancava alla Roma e la Roma mancava a lui. E poi la febbre se ne andrà. Domani staremo meglio. Domani chissà. Voleva giocare, all’epoca prendeva i premi solo chi giocava. Ci teneva. Il pallone era la sua rivoluzione. E la rivoluzione si ferma con una febbre? Il 2 marzo gioca contro la Sampdoria, a Genova, in fondo era tutto partito da lì.
Sarà la sua ultima partita con la Roma. Dopo la partita sta di nuovo male, e ricomincia una cura antibiotica. Herrera lo vuole a Cagliari anche se non giocherà, perché magari giocherà a Brescia tre giorni dopo dove la Roma giocherà per la Coppa Italia e per Herrera la Coppa Italia è importante. Al Brescia una volta, ormai già tanto tempo fa, Taccola aveva segnato il nostro capodanno. Giuliano Taccola parte per Cagliari con la Roma anche se non giocherà. Va. Sta in albergo in stanza con Ciccio Cordova, neanche lui giocherà perché è squalificato. Fanno gruppo, si dice. O almeno dovrebbe essere questo uno dei perché della loro presenza lì secondo Helenio Herrera, il Mago, arrivato da Milano col carisma enorme di uno che aveva vinto tutto e che più o meno avrebbe dovuto fare altrettanto anche a Roma. O almeno vincere una Coppa Italia… La mattina alle 9, nell’albergo di Cagliari, Giuliano Taccola e Ciccio Cordova vengono svegliati dal massaggiatore: «Herrera vi aspetta sotto! Bisogna fare l’allenamento». Sono sorpresi, ma non è tanto quello è che Giuliano non sta bene, non se la sente, si sente uno straccio. Guardano fuori dalla finestra, c’è pure tanto vento: gli alberi si muovono. Ma c’è l’allenamento. Scendono. Poi Giuliano Taccola va in tribuna a vedere la Roma confondendosi col pubblico. La Roma pareggia zero a zero è un bel risultato: quello è un grande Cagliari, è il Cagliari di Nené, Boninsegna, Riva, l’anno dopo vincerà lo Scudetto. Altro che Coppa Italia… (…)
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