Raccontano che nel 2002, dopo anni di assenza, Falcão fece una scappata all’Olimpico. Quando la sua immagine comparve senza preavviso sui maxi schermi dello stadio, un po’ invecchiato, con meno capelli, salutò timidamente. E al boato della gente scoppiò in un pianto incredulo: «Non pensavo mi riconoscessero». Ma a Roma Paulo Roberto Falcao è ancora l’Ottavo Re, simbolo della Roma più bella, la prima in grado di sfidare la Juve. «Mi colpisce che un ventenne mi incontri per strada e si emozioni: quando giocavo non era nemmeno nato. Questo amore mi fa un piacere enorme». Un amore da film, deve essersi detto David Rossi, regista di una pellicola che ne racconta la vita: Falcão bambino a Xanxeré, poi a Porto Alegre, a Roma, mentre si toglie il cappello davanti alla curva dell’Olimpico. Per il dg Baldissoni, «si era lasciata andare per incuria la storia di questa società». Certo, dopo Maradona a Napoli e Zico a Udine, un’altra leggenda degli anni 80 si prende il posto delle emozioni, quello che forse i suoi eredi snobbano, «troppo presi dai cellulari — dice lui — e dai social, che non mi piacciono perché ognuno può dire qualunque cosa senza metterci la faccia». Nella sua Trigoria, Falcão ha pranzato con vecchi amici, Tempestilli e Bruno Conti. Uno che sostiene l’idea che Falcão abbia cambiato la storia della Roma. «Quando scesi dall’aereo nel 1980 — ammette lui — ho capito che qui c’erano aspettative superiori alla storia del club. Non arrivava Falcão, ma una speranza». Qualcosa cambiò davvero: lo scudetto sfiorato al primo anno, quello del gol di Turone che Falcão sente «suo».
Quello vinto davvero nel 1983: «La Roma aveva già la mentalità vincente, ma contro le squadre del nord era difficile. Dissi ai miei compagni che la partita non si vince e non si perde prima. La mia utilità? Far capire che chi dava 7, poteva dare 8». Oggi, 35 anni dopo, è ancora Roma-Juve. «I bianconeri non solo erano grandi tecnicamente, ma anche politicamente. Ma l’ho detto a Bruno, oggi abbiamo una società vera: giri per Trigoria e senti l’odore della vittoria». Per vincere serve ancora un piccolo passo. E così, sposa il motto “famo sto stadio”, ma senza eccessi: «Essere grandi nel calcio di oggi significa averne uno proprio. Non entro in polemiche che non conosco, ma alla Roma serve per vincere». Anche Spalletti lo ha ascoltato in piedi, dal fondo della sala. Pallotta verrà a Roma il 16 marzo per dirimere le questioni legate al suo contratto e al rapporto con Totti, di cui anche Falcão ha parlato: «L’importante è che si rispettino. Totti dovrebbe giocare fino a 50 anni, l’anno scorso volevo portarlo allo Sport Recife». L’ansia da prestazione Falcão non sapeva cosa fosse: «Avevo fretta di giocarle le partite: sapevo che il campo era il mio palcoscenico». Ora che è entrato nel mito, un palco non basta. Serve un film.