Il bambino è cresciuto in fretta. Ha temuto di smettere, non di giocare ma di camminare, dopo una tremenda diagnosi: un’infezione che secondo i medici poteva provocare l’amputazione di una gamba. Maxime Gonalons scruta il panorama del passato reclinando un po’ la testa, per elaborare. «E’ stata un’esperienza forte – ricorda – tanto più perché avevo solo 18 anni, un’età delicata. Ma mi ha aiutato a maturare come persona, facendomi capire relativamente presto che nulla ha senso nella vita se manca la salute». Era il 2008. E dopo essere diventato grande per forza, lo è stato per merito da calciatore. Capitano del Lione a 24 anni, idolo di una generazione di tifosi, aveva tutto ciò che voleva a casa sua. Poteva fare il Totti o il De Rossi, senza curarsi del mondo fuori. Ma non gli bastava più. Doveva provare a uscire dal guscio per sentirsi compiuto.
Gonalons, domanda secca: perché la Roma? «Facile. Perché è una delle squadre più forti d’Italia. Perché il campionato italiano è tornato affascinante come un tempo. Perché qui sono convinto di potermi togliere grandi soddisfazioni, magari anche in campo internazionale. Quando sono stato chiamato non ho esitato neppure un minuto: era un’occasione troppo eccitante per me, anche Pjanic e Grenier mi hanno spinto ad accettare».
In passato ha detto di no al Napoli. Il suo procuratore Guerra giura sia stato per paura, dopo aver visto al cinema Gomorra… «Ma no, per carità. Non c’è niente di vero. Semplicemente l’offerta mi è arrivata tre anni fa e all’epoca non mi sentivo pronto. Il Lione stava costruendo il nuovo stadio e aveva grandi ambizioni. Adesso invece era il momento giusto per lasciare la Francia».
E’ la prima volta che si allontana da Lione. Non teme uno choc nelle sue abitudini? «Sicuramente non sarà facile, all’inizio. Soprattutto alla mia famiglia servirà del tempo per adattarsi alla nuova vita. Ma ce la faremo. E poi Lione non è così lontana da Roma. Si può sempre tornare a casa ogni tanto».
A casa era il capitano, qui dovrà contendere il posto al capitano della Roma. Anche questa è una novità per lei… «De Rossi è un monumento, un calciatore di classe mondiale. Un simbolo della Roma, come lo era Totti. Per me è soltanto un piacere poter lavorare con lui, che tra l’altro parla anche un po’ di francese e perciò può aiutarmi nell’inserimento».
Non la preoccupa rimettersi in discussione? Qui rischia di partire dalla panchina… «Per niente. Mi sono sempre conquistato il posto in squadra, sia all’inizio della carriera al Lione che nella nazionale francese, dove c’era una concorrenza anche maggiore. Sono qui perché spero di poter giocare il maggior numero di partite possibile».
Cosa pensa di aggiungere alla Roma? «Sono un calciatore che gioca molto per la squadra. E credo di avere delle qualità che in un gruppo sono utili».
Sarà differente il suo compito nel 4-3-3 di Di Francesco rispetto al modulo simile che avevate a Lione? «Non più di tanto. Cambiano qualche movimento e qualche allineamento tattico. Magari anche la velocità, che nel calcio italiano è superiore. Però il mio ruolo è sempre lo stesso: sono la sentinella della squadra».
Pregi e difetti che si riconosce? «So far girare il pallone a destra e a sinistra e sono bravo a recuperarlo. Devo però migliorare, perché sempre si può migliorare nel lavoro quotidiano. Soprattutto nella concentrazione, che è fondamentale: quando sale il livello non puoi distrarti neppure per un minuto dentro alla partita».
Tornando indietro, come si è avvicinato al calcio? «Grazie a mio padre Pascal, che giocava terzino sinistro nella banlieue lionese dove sono nato (Venissieux, 61.000 abitanti, la stessa del ciclista Domoulin, ndr). E’ stato lui a trasmettermi la passione per il calcio. Poi ho cominciato nel Villefranche, un piccolo club, e a 11 anni sono entrato nelle giovanili del Lione».
Fino alla Roma… «Sì e se penso che ho passato 17 anni nel club della mia città, mi sembra una vita. Non è uno scherzo questo cambiamento per me. E resterò lionese dentro per sempre. Però dovevo provare questa esperienza, misurarmi a un livello superiore».
Il livello superiore è vincere. Con Mahrez sarebbe più facile? «Mahrez è un grande giocatore (ride, ndr) e potrebbe fare grandi cose se venisse alla Roma. Ma quello che conta poi è il verdetto del campo. E’ inutile fissare degli obiettivi precisi finché non si gioca».
Ha sempre giocato come sentinella davanti all’area di rigore? «No. Come tanti bambini mi piaceva stare davanti. Ero un trequartista. Poi un allenatore delle giovanili, Ramon Garredau, mi ha spostato a centrocampo. Ed è stata una fortuna: ho subito capito che era quello il ruolo che esaltava meglio le mie caratteristiche».
Quando ha avuto quel problema, uno stafilococco aureo alla caviglia, ha pensato a una vita diversa? «Sinceramente no. Mi ero impegnato troppo per arrivare al calcio professionistico e non mi interessava dedicarmi ad altro. Dovevo recuperare, riuscire a sconfiggere l’infezione. Ed ora eccomi qua, a capire quanti privilegi abbia il mio lavoro».
E i suoi privilegi fuori dal campo quali sono? «Stare con la mia famiglia. Ho due figli piccoli, Eden e Tom, e appena posso mi rilasso in loro compagnia. Ci siamo già organizzati a Roma con mia moglie Clara: abbiamo scelto casa e la scuola per i bimbi. Tutte le cose stanno andando al loro posto».
In Francia invece cosa è cambiato con Macron? «Ah siamo alla politica… Ok, l’argomento mi interessa. Mi piace Macron. E’ un presidente giovane, che sta portando dei cambiamenti nel Paese. Spero che faccia migliorare il benessere della gente, che possa garantire condizioni dignitose di lavoro a tutti».
Per finire una promessa: la prossima intervista si fa in italiano… «Andata. Tra due mesi. No vabbè, facciamo a Natale».