Piedone, sì ma non l’africano e neppure lo sbirro. Piedone e basta. L’unico che aveva il diritto di aprire un bar col suo soprannome a Piazzale Clodio. Pedro Waldemar Manfredini se ne è andato ieri a 83 anni. Una leggenda giallorossa. Era il viso antico, il corpo, l’eleganza fisica e la potenza del gesto, più un certo modo di impomatarsi i capelli, tipici di un calcio lontano che oggi non avrebbe più senso (troppo semplice e buono) e che forse, in diretta televisiva, sarebbe inguardabile. Era la figurina di uno sport composto da ragazzi dal volto già consumato o bruciato dal sole. Giovani selezionati dalla povertà o dal rimbombare di qualche guerra. Pedro incuteva timore: “Un fusto, mamma!”, avrebbe detto Franca Valeri. Ma era alto come Under (1,74) e quando incontro Pallotta sembrava un nonnetto aggrinzito dal tempo. Pedro era il classico “fromboliere” che aveva imparato a segnare in tutti i modi. Di sé, nel ’60, disse: “Molta gente non mi comprende, il mio gioco è moderno, direi all’europea, ha poco della classica caratteristica sudamericana, con “gambetas”, “pisadas”, “cortes”, “firuletes”. Io vado dritto, cerco direttamente la rete. E creo polemiche. A Mendoza qualche dirigente pensava fossi inutile!”. Tanto inutile che lo dovettero vendere per 60 milioni.
Lanciato da “Mummo” Orsi nel Maipù, arrivò da noi per giocare nella Roma (dove è rimasto dal ’59 al ’65 segnando 104 reti) dopo un lungo rimestare di carte sulle scrivanie (“lo prendo se posso schierarlo come oriundo”, disse l’allora presidente della Roma D’Arcangeli) e dopo un fallito passaggio al Torino. A segnalarlo ai giallorossi fu un argentino della Lazio, Silvestro Pisa, e Pedro più tardi espresse al suo connazionale tutta la sua riconoscenza segnando nei derby (5 derby, 5 reti). Pedro era orgoglioso delle sue origini italiane. Il nonno paterno Pietro, viticoltore ed “emigrante” come i protagonisti del profetico, omonimo film di Fabrizi del ’49 (Emigrantes), era partito da Cremona a fine ‘800 per fare fortuna in quell’Argentina piena d’uva che circonda Mendoza. La famiglia della madre veniva dalla Puglia.
Pedro sbarcò a Ciampino e un fotografo, Brunetti, quando apparve in cima alla scaletta dell’aereo usò il grandangolo: “Sembrava che avesse un’estremità gigante!”. Non aveva ancora messo i piedi sulla terra italiana e il 24enne dell’altro mondo già era diventato “Piedone”. I primi mesi alla Roma furono difficili. Giocava in una squadra di talenti che spesso preferivano “piacere” nei night-club di Via Veneto. Pero quell’attacco faceva paura: Orlando, Lojacono, Manfredini, Schiaffino, Selmonsson. L’anno dopo Pedro cominciò a fare la differenza, la Roma balzò in testa alla classifica dopo tre giornate. Poi la solita curva ipoglicemica, ma anche la conquista della Coppa delle Fiere (doppietta di Pedro nel 2-2 dell’andata di Birmingham). Più avanti Carniglia, argentine come lui, lo mise fuori squadra placando le ire di chi lo aveva sempre considerato un mezzo bidone. Tornato Foni in panchina, Manfredini si ripresentò con una tripletta al Palermo. Nel ’63 dopo aver vinto la classifica marcatori insieme con Nielsen del Bologna, a cedere purtroppo non fu la voglia ma il ginocchio. Il resto della carriera (Venezia e Brescia) si misurò più in dolori che in scatti. Rientrò triste y solitario in Argentina. Ma ormai non era più casa sua. E così è ritornato qui. Sino alla fine.