Ho sempre pensato che fra i grandi eroi Francesco Totti fosse Odisseo. Come l’uomo scaltro che Atena aveva fornito della forma d’intelligenza più utile agli umani, anche Totti, fin dagli esordi, aveva mostrato a tutti quella che sarebbe stata la sua dote indiscussa e probabilmente inarrivabile: quell’intelligenza astuta e lungimirante che gli avrebbe permesso di vedere ciò che a pochissimi giocatori riusciva di vedere. La consapevolezza degli spazi, la capacità di anticipare e tagliare il campo con un raggio di luce, l’abilità nell’adeguarsi al momento particolare, agli umori dei compagni e degli avversari per aprire il campo con un gesto imprevedibile. Proprio come Odisseo, del resto, Totti coltivava il dono della battuta, della parola mormorata con finto disinteresse e apparente distacco, ma in realtà calibrata a arte, per calmare gli animi o incendiarli, indisporre gli avversari e indebolirli. Ma più di tutte le caratteristiche straordinarie di questo giocatore unico – potente e lieve, muscolare e leggero, missili imparabili e foglie morte, colpi di tacco, di testa, di stinco e di genio –, più di qualsiasi forma di classe inviata dagli dèi, Totti mi è sempre parso Odisseo per la casa, la sua casa, Roma.
Odisseo non avrebbe mai lasciato Itaca se non fosse stato costretto. E noi sappiamo che passò vent’anni a vivere soltanto per tornare a casa. Nessuna bellezza poté trattenerlo: né donne, né mondi paradisiaci, né promesse di immortalità. Solo Itaca, Penelope, il padre Laerte, il figlio Telemaco. Lo stesso è sempre stato per Totti, impegnato per quarant’anni in un eterno ritorno a casa. Noi romani e romanisti sappiamo benissimo ciò che significa. Ma anche chi non coltiva questa follia tutta romana lo ha capito, nel tempo. Perché c’è qualcosa di unico a Roma. Ossia una squadra di calcio che è lo specchio perfetto della città, nella sua bellezza e nella sua magia, come nella sua follia e nei suoi crolli. A tal punto che chi in questi ultimi anni voglia capire Roma e i romani potrebbe benissimo limitarsi a studiare l’AS Roma.
Ora, di questa squadra così profondamente identificata nella città (un fatto ormai unico nel mondo del calcio stellare, televisivo e sempre più inumano), Totti è stato e sempre sarà l’esemplare massimo. Apparentemente disincantato e in realtà romantico; cinico come solo i romani sanno esserlo, ossia senza cinismo, ma con l’amarezza di chi sa che le generazioni ci sopravvivono e la città resta eternamente la stessa; pieno di quel malinconico amore dissimulato dietro il sorriso sornione, come solo in una canzone di Gabriella Ferri; disposto a tutto per vincere anche una sola volta, ma quella capace di restare per sempre. Chi ha festeggiato lo scudetto di Totti capisce immediatamente di cosa sto parlando, ma lo capisce anche chi abbia avuto soltanto la possibilità di vedere questo giocatore sublime volare quasi quarantenne per arrivare nel momento giusto a colpire morbido il pallone per pareggiare un derby che pareva perso, o entrare al 41’ di una partita ormai follemente perduta con il Torino e ribaltarla nel giro di 180 secondi. Basta.