Joe Fagan, faccia alla James Cagney, era il boss dei Reds. Di origini irlandesi, classe 1921, volontario nella Royal Navy senza sapere che soffriva il mal di mare, ex difensore, nell’83 aveva sostituito Bob Paisley sulla panchina del Liverpool. Era un uomo semplice, alla Nereo Rocco, abitava ad Anfield Road, salutava sempre tutti, aveva il naso storto, ricordo di quando faceva il pugile. Indicava il porto: «Quelli hanno perso perché non si sono adeguati». Aveva già detto tutto: su Liverpool e sul Liverpool. Allora la squadra vinceva: sette scudetti in nove anni, tre Coppe Campioni negli ultimi cinque. La città invece, definita una “Marsiglia senza sole”, perdeva: morta, sfinita, senza più lavoro. Nei musei un cartello avvisava: bambini, anziani, disoccupati, metà prezzo. Come se non avere più un’occupazione fosse una categoria della vita. Avanzava la crisi.
La squadra si era adattata, gioco razionale, parsimonioso, ma rapido. La città invece si era difesa, ancorata al suo porto, ma la rivoluzione dei container l’aveva presa in contropiede e affondata. Proprio come il Titanic, nave registrata a Liverpool. Quasi tutti i marinai, gli ingegneri, gli ufficiali, erano di lì. La città nel disastro perse cento figli. Compresa l’orchestra che suonò quella notte (c’è una targa-ricordo alla Philharmonic Hall). E compresi i 50 mila piatti di porcellana, anche quelli della prima classe, imbarcati dalla ditta Stoniers. Il Liverpool era lo specchio rovesciato della città.
Fagan, sei figli e modi spicci, fu il primo a stipare casse di birra nel vecchio magazzino riconvertito in sala-riunioni detta “Boot Room” e quando Elton John, presidente del Watford, gli chiese un “pink gin”, Joe gli sussurrò: «Ragazzo mio, qui si beve brown ale o scotch». Tanto per fargli capire che la sete a Liverpool restava da classe operaia. Squadra mista (per allora): sudafricano Grobbelaar, il portiere, irlandesi Lawrenson e Whelan, scozzesi Hansen, Dalglish (arrivato in sostituzione di Kevin Keegan) e Souness; sudafricano, ma australiano di famiglia, Johnston, gallese Rush.
Tre gli inglesi veri: Neal e Kennedy, il terzino sinistro che segnò il rigore decisivo a Tancredi, e Sammy Lee, l’unico di Liverpool, che arrivava al campo di corsa.
Oggi la squadra è più internazionale, molto più europea: l’allenatore Klopp è tedesco, il suo vice serbo, tra i giocatori c’è un brasiliano, un egiziano, uno spagnolo, un senegalese, un ungherese, un estone, un belga, un camerunense, un croato, due gallesi, uno scozzese, tre olandesi, molti inglesi, più la proprietà che è americana.
Liverpool non era amletica, Fagan ti diceva: «È una partita, non la vita. E quella la sappiamo giocare». Alla vigilia della finale con la Roma lui partì per Glasgow, a ritirare un premio, Grobbelaar andò dal dentista, e così in allenamento chi scrive si mise in porta nella partita cinque contro cinque. Il Salah (31 reti) di allora era Rush, 22 anni, 32 gol in campionato, 49 comprese le Coppe, aveva già la faccia da faina. Nessun ritiro, nessuna imposizione speciale, nemmeno quella di non bere. «I giocatori trattati da bambini si comportano come tali». E nell’eventualità dei rigori? Fagan con i giocatori era stato categorico: «Arrangiatevi, decidete voi». Souness, capitano, alla domanda sulle marcature, aveva tagliato corto: «L’abbiamo fatta una sola volta, su Breitner».
A tre giorni dalla finale la tv apriva i notiziari sportivi con il cricket e la stampa con Lester Piggott, fantino preferito della regina Elisabetta. Mentre la Roma si isolava, Kenny Dalglish ci invitava di sera a giocare a biliardo nella sua villa. «Faremo tardi, ma solo un po’».
Carambola. Oggi Liverpool ha un sindaco laburista, Joe Anderson, il primo eletto direttamente, al suo secondo mandato, che a 16 anni ha lasciato la scuola per imbarcarsi e poi diplomarsi tardivamente. Sposato, quattro figli, tifa Everton e non Liverpool. La città è stata brava nel non svendere la sua memoria, ha salvato 440 case sopravvissute alla seconda guerra mondiale, alla Thatcher, ai moti di Toxteth dell’81, da un nuovo piano urbanistico che ne prevedeva la distruzione. Compresa Madryn Street dov’è nato Ringo Starr, batterista dei Beatles. You’ll never walk alone, la frase incisa sul cancello di Anfield è un inno che vale una citazione di Shakespeare o la poesia If di Kipling appesa nello spogliatoio di Wimbledon (“Se riesci a far fronte al trionfo e alla rovina e trattare allo stesso modo quei due impostori”). L’ha cantata anche Roy Orbison, che qui venne in tour con i Beatles quando non erano ancora icone mondiali e che sapeva cosa significa restare solo avendo perso la moglie in un incidente stradale e due figli nell’incendio della sua casa.
La squadra dal ’64 gioca in rosso, il primo colore che si vide nella tv inglese a marzo del ’67 in Liverpool-West Ham. Liverpool è sempre stata città testarda, resistente all’oblio, tanto che l’anno scorso ha applaudito “Film stars don’t die in Liverpool”, storia dell’attrice Gloria Grahame che ebbe successo in America, recitò con Bogart e Stewart, ma non ebbe la parte in “Nata ieri” perché rifiutò di andare in limousine con Howard Hughes, capo della Rko, e tornò già ammalata, nella casa della madre. Fece scandalo pure perché sposò il giovane figlio del marito, il regista Nicholas Ray.
Antesignana di un movimento delle donne che ancora ad Hollywood non alzava la testa.
Non è più quella Liverpool: Gloria è morta a 57 anni nell’81, Fagan nel 2001, i Reds non hanno mai vinto la Premier League, e nessun allenatore prende più casa davanti allo stadio, ma è sempre Liverpool.