Stadio Olimpico, come un nome e un cognome. Un amico, per generazioni di tifosi. Un amico che a volte avrà pure girato le spalle, ma che è stato quasi sempre fedele nei 64 anni di vita comune. Un amico che non a caso Verdone nell’indimenticabile scena iniziale di Un sacco bello aveva immaginato citato due volte nell’agendina del protagonista, sotto la S e sotto la O, col nome o col cognome. E al quale oggi, alla vigilia della sfida di domani sera con lo Shakhtar Donetsk con i quarti di Champions come obiettivo, ogni tifoso romanista si rivolge con una lettera accorata, che abbiamo immaginato così.
Caro Stadio, no, non pensare che io abbia tanta voglia di scherzare. Se comincio così la lettera tu puoi pensare che io voglia ironizzare sul fatto che domani sera andare allo stadio mi costerà una fortuna. Lo sai anche tu che 40 euro per una curva sono un prezzo insostenibile, ma giuro che stavolta non ci stavo pensando. È che per me sei proprio “caro”. Ormai è una vita che ci vediamo quasi ogni settimana e se metto in fila tutte le volte in cui mi sono divertito, in cui mi hai regalato un’emozione, in cui mi hai cambiato in meglio l’umore di una giornata o di una settimana sgradevoli mi gira la testa. Ma io penso che tu sia proprio un caro amico e visto che domani ci vediamo di nuovo oggi mi è venuto in mente di scriverti due righe.
Sai che viviamo giornate complicate, schiviamo buche ogni giorno, in senso figurato e in senso assai più concreto. E in tutti e due i sensi a volte restiamo pure con le gomme a terra. Un amico è proprio quello che ci vuole. Un rifugio sicuro, in cui passare un paio d’ore emozionanti, a cantare insieme, a gioire, a urlare se necessario, a ridere e a piangere. Con te, da te, per te, l’ho fatto spesso. Venerdì sera quando abbiamo ricordato Davide Astori, ad esempio. Quando c’è stato quel minuto di silenzio che forse per la prima volta nella (nostra) storia è stato di realissimo silenzio, di intensissimo silenzio, di rumorosissimo silenzio. Come se ci fosse un nuovo rispetto, per un patto non scritto ma idealmente siglato da tutti quanti. Un mio conoscente di Firenze ha un amico grande come te e proprio ieri mi raccontava di come abbiano vissuto insieme questa grande emozione collettiva nel nome di Davide. E tante cose adesso viene voglia di fare, nel nome di Davide. Ma poi ci si dimentica presto tutto e tra un po’ non si farà più niente nel nome di Davide, non ci si sorriderà solidali, non ci si abbraccerà, non ci si rispetterà più. Siamo uomini e in quanto tali fallibili.
Ma tu sei di un’altra pasta, tu non dovresti essere fallibile. Tu sei un monumento e se tu hai la dignità di non ricordarlo, a chi lo mette in dubbio, che gran curriculum di serate felici puoi vantare fino a oggi, sono pronto io a farlo per te. Altro che “Mai una gioia”. Tu “Dai una gioia”, già solo al momento in cui saliamo ‘ste scalette e a poco a poco vediamo il prato e tutto quello che c’è intorno e tutti quei fratelli e quel giallo e quel rosso che spunta ovunque. E poco importa che ci sia il sole o a illuminare il prato siano i fari sul tetto o, come una volta, i quattro fari altissimi che incrociavano la luce sulle sagome dei calciatori. E poco importa che piova o faccia freddo, che il cielo sia sereno o si sudi. Tu sei sempre lo stesso, pronto a fare la tua parte.
Ricordo serate piovose e gioiose, tipo quel Roma-Colonia, per i primi segni di quella grandezza che ci stava per cadere addosso quell’anno. Tempo da Lupi, lo straniero non passò, Iorio e Falcao ti fecero tremare dalle fondamenta. Che notte quella notte. O qualche mese più tardi, stavolta bellissima serata estiva, quella magia di passaggi e contropassaggi a disegnare ragnatele di primordiale Tiki Taka, col Goteborg, 3-0 per cominciare. Una volta quella del 3-0 era una bellissima regola. Quell’anno, in particolare, finì così gli svedesi, e poi con la Dinamo Berlino e poi col Dundee, col sole alto così, con quella luce piena a riflettere quei marmi bianchi. Altre volte abbiamo visto quella luce così piena mentre festeggiavamo con te: Roma-Torino, ad esempio, 15 maggio 1983, o Roma-Parma, 17 giugno 2001. Stessa luce, stessi colori, stessa condivisione di amore, stessa gioia, noi sul tetto d’Italia, noi i migliori di tutti. Che poi è quello che proviamo ogni volta che vinciamo una partita sotto il tuo sguardo benevolente.
Ecco, domani sera vorremmo vincere. Dai a tutti noi questa gioia. Verremo in tanti, non tutti, magari, perché sei diventato un carissimo stadio, ma in tanti. Le previsioni dicono che domani ci sarà il sole durante il giorno e la sera il tempo resterà sereno. “Sotto un manto di stelle Roma bella m’appare”: ricordi che altra sera bellissima col Barcellona di Puyol e Rivaldo, del giovane Xavi, di Luis Enrique? In quei giorni ci sentivamo davvero i migliori del mondo. Al Camp Nou solo un errore di Candela ci aveva fatto pareggiare una partita dominata, in casa li annientammo, segnarono Emerson, Montella e Tommasi. Poi tornammo all’Olimpico una manciata di giorni dopo per umiliare la Lazio, con i quattro gol di Montella e la dedica del capitano all’allora sconosciuta Ilary Blasi, che poi diventerà sua moglie. Altre storiche squadre si sono piegate al nostro valore negli anni, dal Chelsea (ai tempi di Vucinic e a quelli di El Shaarawy) al Real Madrid (giusto 2-1, con Pizarro e Mancini) e ci piace ricordare pure il fortissimo Manchester United di Ronaldo e Rooney, che qui fu sconfitto, ancora 2-1 (Taddei e Vucinic) e fu pure espulso Scholes e tutti pensammo che fosse di buon auspicio per la partita di ritorno. E invece. Qui hanno passato brutti momenti titolatissime squadre nordiste: alla Juventus 4 (zitti e a casa, ghignò Totti), al Milan 5, con Zeman che umilia Capello, all’Inter 6, nell’andata di una finale di Coppa. Qui dovrà passare una brutta serata anche lo Shakhtar Donetsk, domani sera. Saremo in tanti, forse non tutti, ma saremo con te. Dai ‘na gioia, amico mio. Ne abbiamo bisogno.