Ci sono casi in cui un accento differente cambia il vocabolo, ma non il senso generale del discorso. Uno di questi riguarda Daniele De Rossi, l’àncora alla quale si aggrappa la Roma nel mare in tempesta che la sta travolgendo.
Sì, ancòra lui. Come sempre. Anche ora. Anche mentre la carta d’identità comincia a discostarsi dai trentacinque per avvicinarsi ai trentasei. Perfino con i tre mesi pieni di stop alle spalle, che se pesano per i ragazzini di primo pelo, a maggior ragione possono influire su chi non attraversa la fase di maggiore freschezza atletica possibile.
Eppure mai come adesso il Capitano è atteso, invocato, desiderato. Non soltanto per quello che è in grado di fare sul campo grazie alla sua sapienza tattica e a quello sdoppiamento che rappresenta il marchio di fabbrica di un’intera carriera, fra regista e interditore. Quanto per il carisma che tutti gli riconoscono. A partire dall’allenatore: in occasione della gara contro il Genoa di metà dicembre scorso, in un altro dei tanti periodi negativi della stagione, Di Francesco scelse di portare il numero 16 accanto a sé in panchina. Pur sapendo – e dichiarando – che difficilmente avrebbe potuto disputare anche solo un breve spezzone di partita.
Ma quella presenza nella lista dei convocati aveva un valore simbolico ben più importante di quello pratico. Profondo. Serviva a fare gruppo. A fornire a una squadra ancora frastornata dall’ennesima rimonta subita (a Cagliari) il più solido degli appigli. L’ancora appunto. Il punto di riferimento cui tutti si rivolgono quando hanno bisogno di un consiglio, quello che difende e sprona, in campo come nelle difficoltà. Lo scudo che ripara dai colpi esterni. Il compagno al quale affidarsi, quello che basta girarsi e sapere che c’è, per fugare ogni timore preventivo.