Non è uno scudetto. Non è una Champions. Non è nessun trofeo che possa farci dare appuntamento al Circo Massimo. È di più. È lo Stadio della Roma. Il nostro stadio. La nostra casa. La casa della Curva Sud e dei romanisti. Quella che dai tempi dell’ingegner Dino Viola, per decenni c’è stata negata da politici a due facce, salotti da io do una cosa a te, tu non dai una cosa a me, buffonate a uso e consumo di maggiordomi e leccaculo consapevoli di prendere in giro i tifosi quindi ancora più colpevoli, forse anche da un’opinione pubblica a cui scientificamente e colpevolmente, non è mai stato spiegato quello che voleva dire lo Stadio della Roma, tra notizie false e costruite ad arte per far credere quello che non era.
Non lo diciamo per garantire un’ancora di salvezza a questa società che a Trigoria ha cambiato tutto, in meglio, meno purtroppo la bacheca dei trofei. Lo diciamo perché lo pensiamo, lo abbiamo sempre pensato e continueremo a pensarlo, nella più completa trasparenza. Lo pensiamo perché ieri, quel sì che davvero speriamo sia definitivo, rappresenta un angolo della nostra storia. Il terzo, per come la pensiamo, della nostra storia. Il primo è stato nel 1927, anno della nostra nascita. Il secondo, 1980, quando da un aereo battente bandiera brasiliana, dalla scaletta scese Paulo Roberto Falcao. Il terzo è ora, il nostro Stadio.
Chi scrive non può nascondervi che, ieri, quando il Sindaco ha detto quel sì con tanto di cantieri aperti entro questo 2019 (speriamo), ha provato un’emozione forte, ai confini della commozione. (…)