Era uno dei ragazzi degli Anni 70. Faceva parte di quella Roma di capelloni e scapigliati che per un periodo fecero sognare una città, arrivando al terzo posto. Sì, perché all’epoca un terzo posto era tutt’altro che consuetudine, tanto che a quella stagione – 1974-1975 – è stato dedicato più di un libro. Paolo Conti, Ciccio Cordova, Francesco Rocca, Sergio Santarini, Franco Peccenini, Pierino Prati e poi lui, Alberto Batistoni. Batistoni è stato uno stopper vecchia maniera – 69 presenze complessive tra il 1973 e il 1976 – nella Capitale trovò “l’apice della mia carriera”. Una carriera che iniziò in Toscana, la Fiorentina fu il primo approdo importante. Ma in viola non esordì mai, “nonostante tutti i giornali annunciassero il mio debutto ogni settimana. Per fortuna c’è stato Liedholm…”.
Liedholm fu il suo mentore? “È stato un uomo importante nel mio percorso calcistico. Mi notò in una finale del campionato De Martino con la Fiorentina e mi portò a Verona dove mi misurai nel calcio dei grandi. Era il 1968, un anno di cambiamenti per il mondo e per me”.
Lo stesso “Barone” che ritrovò nella Roma qualche anno dopo TRA IL 1973 E IL 1976… “Sì, ma nella Capitale ci arrivai prima grazie a Scopigno. Lui chiese il mio acquisto al presidente Anzalone. Rimase colpito da come avevo marcato Riva in una partita contro il Cagliari. Mi volle a Roma e io ricambiai la fiducia dell’allenatore. Però iniziò male il campionato e il tecnico finì per essere esonerato. Al suo posto subentrò Liedholm che mi conosceva e sapeva come utilizzarmi”.
Col quale arrivaste al terzo posto nel 1975… “Fu un campionato esaltante, dove con un pizzico di fortuna in più avremmo potuto anche lottare per il titolo. D’altronde, partimmo male e col Torino perdemmo andata e ritorno. Pensate che la prima partita la vincemmo solo alla sesta giornata, contro l’Ascoli con gol di Prati”.
Che rapporto aveva con la città? “Roma è una piazza meravigliosa, fu il mio primo contatto con una metropoli. Mi trovai benissimo, resta senza dubbio l’apice della mia carriera. Dopo la Roma, giocai con Cesena e Spezia, ma ebbi più di qualche problema al menisco, tanto che lasciai il calcio a 33 anni”.
Se chiude gli occhi, la prima cosa che le viene in mente del periodo giallorosso? “Se penso a quegli anni, mi viene in mente quella tifoseria incredibile che ci spingeva ogni partita. Ho avuto modo di tornare qualche mese fa per la presentazione di un libro scritto per la stagione del terzo posto, ho rivisto tanti compagni di quei tempi. Un’emozione grande, davvero”.
Perché, invece, alla Fiorentina non ebbe la stessa fortuna? “Ero piuttosto giovane. I giornalisti di allora non aspettavano altro che il mio esordio in prima squadra, ma l’allenatore Chiappella non mi vedeva e l’occasione non arrivò”.
Il calcio di oggi le piace? “Lo seguo molto meno. Oggi vivo in Toscana, in campagna, e non sempre ho modo per vedere tutte le partite. Mi capita, certo, ma non più con quel trasporto di qualche anno fa”.
Ha più lavorato in questo mondo, una volta appesi gli scarpini al chiodo? “Sono stato per dieci anni in Federazione, ho fatto da secondo per Berrettini nell’Europeo under 19 vinto nel 2003. Dopo, mi sono dedicato ai miei nipoti”.
Vede tante differenze rispetto al passato? “Beh, oggi è senza dubbio uno sport più veloce e più fisico. Noi avevamo un fisico normale, oggi i giocatori sono molto più strutturati. E c’è meno classe rispetto ai tempi miei. Per non parlare delle difese…”.
Le difese? “Sì, l’attenzione per la fase difensiva è completamente diversa. Noi avevamo lo stopper, il libero, i due terzini prettamente di marcatura. Ai miei tempi difficilmente un risultato sarebbe stato ribaltato con due o tre gol di vantaggio”.
Allude ad Atalanta-Roma 3-3? “Beh, sì… Non mi sarei aspettato che la Roma con un vantaggio di tre gol potessi farsi rimontare. Ma fa parte del trend di questa stagione. Ora, però, deve guardare avanti. A partire dalla Coppa Italia, che può essere un obiettivo importante da puntare”.