Ha chiuso con il calcio all’età di 37 anni, dopo circa vent’anni di professionismo. Lo ha annunciato su Instagram il 10 ottobre 2018, con un post sottolineato da una foto di un abbraccio tra lui e Maradona. Lui è Nicolas Burdisso, quello che nella Capitale era chiamato “Il bandito”. Difensore argentino, carismatico, grintoso, in giallorosso sfiorò uno scudetto con Ranieri allenatore nel 2009-2010. Il curriculum è completato da 131 presenze e 6 gol: “Nella Roma ho vissuto gli anni migliori della carriera, fisicamente e tatticamente ero al top”.
Partiamo dalla fine: perché ha deciso di dire basta? “Avevo voglia di competere, ripartire da zero non era un mio obiettivo. Ho avuto delle offerte, alcune anche interessanti, ma nessuna di queste mi ha convinto totalmente. Così, alla fine, sono rimasto coerente con il mio pensiero e ho smesso. Senza troppi rimpianti. Vivrò un anno a Torino, in attesa di capire bene il futuro”.
Già pensa cosa farà da grande? “Intendo restare nel calcio. Sono grato a questo mondo e a questo sport. Mi trovo bene nell’ambito, non soffro le pressioni, anzi mi piacciono. Ho frequentato un corso da allenatore, vedremo se riuscirò a coronare anche questo sogno. Da calciatore i sogni li ho raggiunti tutti e per questo sono sereno”.
Ha avuto tanti tecnici in carriera, se ne dovesse scegliere uno dal quale trarre ispirazione? “Difficile dire. Da ciascuno ho preso un insegnamento sulla gestione dello spogliatoio o un principio tattico. Ho cercato di mettermi sempre a disposizione di tutti, dando in ogni momento il massimo che potevo”.
Cinque anni a Roma, sette allenatori. Le va di parlare di ognuno di loro? “Certo. Da chi vuole iniziare?”.
Dal primo, Spalletti… “L’ho avuto per solo due partite, Genoa e Juventus. Due sconfitte, purtroppo. Ma mi resta il ricordo di un professionista preparatissimo tatticamente. E poi mi volle lui a Roma. Lui con Daniele Pradè. Venire in questa meravigliosa città fu prima di tutto una mia volontà, ma loro mi convinsero prospettandomi un ruolo importante nella squadra”.
Settembre 2009, l’esonero del toscano e l’arrivo di Ranieri… “Un martello sotto l’aspetto motivazionale. Semplificava il calcio con pochi concetti, ma quando c’era da parlare alla squadra riusciva a farsi sentire e a portarti ad un livello mentale molto alto. Sfiorammo uno scudetto a poche giornate dalla fine e arrivammo in finale di Coppa Italia. Purtroppo, davanti avevamo l’Inter del triplete. Una stagione indimenticabile per me, quella in cui mi sentii meglio anche fisicamente”.
Montella subentrò in corsa nella stagione 2010-2011… “Vincenzo mi impressionò per non aver mai pagato lo scotto del salto dalle giovanili alla prima squadra. Fece subito capire di avere ottime doti di gestione del gruppo e importanti idee di gioco. Conosceva bene l’ambiente di Roma, particolare da non sottovalutare”.
Luis Enrique, il primo allenatore della gestione americana… “Uno dei più forti e completi che ho avuto, insieme a Carlos Bianchi e Mourinho. E lo dico con cognizione totale, pur avendolo vissuto marginalmente, dato che in quell’annata ebbi un serio infortunio in nazionale che mi tenne fuori per tutta la stagione. Ma sul campo sapeva lavorare come pochi, oltre che ad avere un carisma coinvolgente. Lo andrò a trovare nei prossimi giorni in Spagna, a Madrid, per aggiornarmi professionalmente”.
Zeman… “Sapeva bene come lavorare e aveva idee molto chiare. A livello atletico mi diede tantissimo, dato che venivo dall’infortunio e tornai su ottimi livelli di rendimento. Eravamo una squadra divertente, segnavamo tanto, ma mi faceva pure rosicare perché a volte subivamo troppo”.
Forse è per questo che poi gli successe Andreazzoli… “Nel calcio si vince e si perde, fa parte del gioco, con Zeman ad un certo punto non andò più. Aurelio era un uomo di calcio, respirava in questo mondo da tempo e si vedeva. Ottenne buoni risultati, nonostante quella finale persa che incise anche sul suo futuro”.
Piccola parentesi: avesse la possibilità di rigiocare una partita a scelta tra quella con la Sampdoria di campionato del 25 aprile 2010 o la finale di Coppa Italia del 26 maggio 2013, quale sceglierebbe? “Sicuramente quella con la Sampdoria. Vincere uno scudetto, quello scudetto, dopo un anno di lavoro incredibile, sarebbe stato molto più importante di una Coppa Italia, anche se persa contro il rivale storico. Nel 2001 vidi con i miei occhi, all’Olimpico, parte dei festeggiamenti per il titolo vinto pochi mesi prima. Venni con il Boca per la gara di presentazione della Roma 2001-2002. La partita in cui si infortunò anche Lassisi. Immagino la città che esplose di gioia per tutta l’estate. Altro che Coppa Italia del 2013…”.
Dopo quella finale, arrivò Garcia… “Rudi fu l’uomo giusto al posto giusto. Un eccellente motivatore, riuscì a tirar fuori il meglio da ognuno di noi in un momento delicato per la storia del club. Facemmo le dieci vittorie consecutive all’inizio del campionato, poi la squadra arrivò seconda. Io decisi di andare via a gennaio al Genoa perché giocavo poco. Ma non potevo prendermela con l’allenatore, davanti avevo due in stato di grazia come Benatia e Castan. E poi, Rudi mi coinvolgeva sempre nei suoi discorsi. Parlava spesso con me, Totti e Maicon su come vincere un campionato in Italia. Dato che eravamo gli unici di quella rosa ad aver conquistato uno scudetto in precedenza”.
Quanto le dispiacque andar via a torneo in corso? “Molto, senza dubbio. Ma alla fine devo dire che avemmo entrambi ragione. Io a continuare la carriera altrove, giocando bene come mi aspettavo. E la Roma attestandosi tra le grandi del campionato anche nel corso del tempo”.
Cosa le ha dato la piazza di Roma? “Cosa non mi ha dato, facciamo prima a dire così. Roma mi ha dato tutto. In questa società ho trovato la consacrazione definitiva, la fiducia di cui avevo bisogno per affermarmi a livelli ancora più alti. A livello fisico e tattico i migliori anni della mia vita”.
Ha condiviso lo spogliatoio con due totem come Totti e De Rossi.
“Due esempi. Diversi, ma entrambi da seguire. Francesco ti trascinava in campo con le sue doti da calciatore eccelso.
Daniele faceva un lavoro encomiabile anche nello spogliatoio. Un ragazzo culturalmente preparatissimo. Totti e De Rossi si completavamo alla perfezione, ciascuno con le proprie caratteristiche”.
I cinque calciatori migliori con cui ha giocato? “Leo Messi sopra a tutti, senza dubbio. Poi dico Juan Riquelme, Zlatan Ibrahimovic, Francesco Totti e il mio idolo Walter Samuel”.
Idolo? “Sì, il mio riferimento al Boca. Giocavamo nello stesso ruolo, ma lui è di tre anni più vecchio. Difensore eccezionale, lo sapete bene pure a Roma dato che vinse il campionato nel 2001. Sono stato fortunato poi a diventare amico del mio idolo e a giocarci insieme”.
Tra i menzionati in precedenza, ha citato anche Carlos Bianchi. Tecnico che a Roma non è amato tantissimo… “Lo so, ma per me è stato forse il migliore in assoluto. Mi fece esordire nel calcio professionistico, mi diede le chiavi di come comportarmi in campo e fuori. Ha vinto tre Libertadores, ha giocato il mondiale per club. Se è stato al top per diverso tempo, ci sarà stato un motivo. Il rendimento negativo a Roma non deve inquinare quanto di buono ha fatto altrove”.
È vero che le piace scrivere? “Sì, lo faccio spesso sia per cose mie private sia per ragioni lavorative. Mi capita di mettere i miei pensieri di calcio su carta e di farli leggere pure a qualche addetto ai lavori. Questo sport è in continua evoluzione, bisogna stare al passo sotto tutti i punti di vista. Sempre. Questa dovrà essere la prima regola anche per il mio futuro”.