Steven Nzonzi, in un’intervista, ha rilasciato alcune dichiarazioni che mostrano il suo lato caratteriale. Si racconta… e gli infortuni che lo hanno qualche volta frenato:
A 30 anni, da campione del mondo, quale è il tuo obiettivo adesso? “Quello principale è di non avere infortuni gravi e di poter giocare bene fino a 33 anni. Si impara a ogni età. Prendi De Rossi, per esempio, lui gioca in una maniera molto intelligente. Ha esperienza, un ottimo tocco di palla, mi ha aiutato molto spiegandomi in inglese i dettami tattici. Ma soprattutto è un professionista. Ha passato tutta la sua carriera a Roma. Ci sono migliaia di calciatori che, al suo posto e dopo aver dato tanto al club, si allenerebbero camminando e senza andare mai in palestra. Ebbene no, non De Rossi, lui non è mai in ritardo, va in palestra, si impegna durante l’allenamento. Non puoi che ammirarlo. Al suo posto, se avessi trascorso tutto questo tempo in un club, forse sarei uno che verrebbe di tanto in tanto agli allenamenti, camminando e con dieci minuti di ritardo, sapendo che l’allenatore non mi direbbe niente. Un altro obiettivo è vincere, perché non ho alzato molti trofei. Farlo con il Siviglia ha cambiato la mia prospettiva, in Inghilterra giocavo per aiutare la squadra nella prestazione collettiva ma mai per vincere qualcosa. Una volta che assaporo la vittoria, prendi coscienza di quello che questa cosa implica. È difficile vincere ed è possibile che non ci riuscirò più, ma se per farlo devo ripetere tutto, la fatica è le ore di video come facevamo con Emery, non avrei dubbi. Lo rifarei perché ne vale la pena”.
Hai cominciato a 6 anni a Colombes, con il Racing, a chi si ispirava il giovane Nzonzi? “Ero piccolo, il calcio non era ancora una parte importante della mia vita. Andavo a scuola, mi allenavo due o tre volte a settimana e con i miei amici giocavamo anche per strada. Mi piaceva molto Okocha, ma Ronaldinho era il massimo. All’epoca portavo i capelli lunghi e le treccine, in allenamento provavamo a fare i passaggi no look, l’unico gesto di Ronaldinho che si può imitare. Mi piaceva tutto di lui, nonostante un carattere totalmente differente. Non sono molto empatico, non mi vedrai mai sorridere sempre. Quando ero al centro di formazione del Psg, lo guardavo come un ammiratore”.
A 14 anni il Psg ha deciso di poter fare a meno di te… “Sì, sono andato a Lisieux, un buon posto per far crescere i giovani, nonostante le infrastrutture non fossero le stesse del Psg. Mi sono allontanato dalla mia famiglia, è stato difficile ma mi è servito molto per crescere e diventare più forte dal punto di vista mentale”.
All’epoca Il Psg ti aveva scartato perché eri alto 1 metro e 71 e pensavi meno di 60 chili. Il tuo fisico è stato per lungo tempo un problema nella tua carriera? “Ah, il fisico… Sia a Caen che al Psg ho davvero capito l’importanza della condizione fisica. Quando facevamo dei test, i difensori arrivavano sempre prima e io facevo parte del gruppo che arrivava dopo. Non ero al loro livello. Oggi va meglio, ho guadagnato in termini di forza, se in campo trovo uno più grande non ho paura. È stata comunque dura a un certo punto, mi stancavo presto durante le partite. Quando sei alto 1 metro e 97 e sei esile…”
Eri oggetto di battute di ogni genere… “Da giovane mi chiamavano Snoop Dogg, ma erano miei amici e non me la prendevo. Non mi importava molto, a 14 anni per me c’erano solo il calcio e i miei compagni”.
A Siviglia, Monchi diceva che lottavi costantemente con il tuo aspetto. È ancora così? “A Siviglia faceva così caldo che inizialmente mi sono quasi pentito di esserci andato. Per giocare a calcio preferisco senza dubbio la pioggia di Stoke, è molto più facile. Quando fa caldo ti senti spossato. Non immagini quanto sia difficile giocare a mezzogiorno a Siviglia con 42 gradi all’ombra. Ma sono riuscito a vincere anche questa sfida. Sono consapevole di trasmettere la sensazione di essere una persona flemmatica, tranquilla e disinvolta ma in fondo sono un vulcano. Nonostante sia migliorato con l’età, è un aspetto di me che ogni tanto esce fuori. Sono un pessimo perdente, non mi è mai piaciuto perdere, ma a causa del mio “body language” la gente pensa che non mi importi nulla. Quando ero allo Stoke City facevo parte dei tre o quattro giocatori che avevano percorso più chilometri durante tutta la stagione, ma se chiedevi alla gente, ti diceva: “Steven dovrebbe correre un po’ di più”. Sono molto esigente con me stesso, ecco perché spesso preferisco delle giocate più sicure, perché se perdessi due o tre palloni, so che mi innervosirei. Mi piace giocare a due tocchi, forse perché non ho un gran dribbling, il passaggio invece… Segnare un gol è un’emozione unica ma a me piace tanto il lato collettivo del gioco del calcio. Il tiki taka del Barcellona di Xavi è Iniesta è l’espressione assoluta di questo gioco”.
Quando hai capito che dovevi migliorare sul piano fisico? “In Inghilterra. Sam Allardyce aveva chiamato mio padre per farmi firmare con il Blackburn. Quando sono arrivato là, sono stato avvisato sul carattere duro dell’allenatore e che era solito cambiare idea all’ultimo momento. Sono rimasto colpito dal suo carisma e dalla sua serietà. Mi ha dato subito fiducia e mi ha fatto giocare, È stato molto importante per la mia carriera, mi ha schierato titolare per tutta la stagione. Ha avuto coraggio, quando sono arrivato alcuni giocatori mi avevano detto che non avrei mai giocato. Là mettono tutti molta intensità nel gioco, io perdevo pochi palloni ma dovevo migliorare dal punto di vista dell’intensità fisica”.
Nel corso della carriera hai avuto allenatori che applicavano filosofie di gioco differenti… “Sì, una cosa ottima per imparare in modo più completo. Con Emery guardavamo molti video e durante l’allenamento curavamo molto la tattica. Sono migliorato molto il primo anno con lui. Specialmente nel continuare a difendere fino alla fine dell’azione piuttosto che fermarmi e guardare. Sampaoli è un tecnico che lascia molta più libertà ai suoi giocatori in campo. La stagione 2016/17 è forse quella che mi è piaciuta di più, giostravo davanti alla difesa, andavo a prendere i palloni, mi lasciava giocare come meglio credevo. È una persona molto gentile, niente a che vedere con l’immagine che trasmette quando è a bordo campo”.
Dopo aver vinto l’Europa League nel 2016, sei tornato a Colombes, durante un allenamento del club, rimanendo nell’anonimato più totale… “Mi piace l’anonimato. Se potessi fare in modo di non essere riconosciuto, non avrei nessun problema. Mi piacerebbe stare tranquillo. Quando mi chiedono un autografo, un po’ mi innervosisco. Non tanto quando me lo chiedono i bambini, ma con gli adulti un po’ sì”.
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