Quando Kevin Spacey – al secolo televisivo Frank Underwood – si materializza sul verde dell’Olimpico, tutto sommato la cosa non ci appare fuori luogo. Se «House of cards» – e quindi la politica di Washington – è il regno dei doppi giochi, delle trame segrete e delle vendette raffinate, i club calcistici probabilmente non sono poi molto differenti dai corridoi del Campidoglio di Underwood. Come dire, la voglia di farsi rimpiangere e la capacità di temere il fuoco amico deve essere tra le doti dei timonieri di qualsiasi latitudine. Tra topini, galline, sciacalli, chi del sospetto e della rivincita ha fatto un arte è Luciano Spalletti, che nel lungo e sincero rapporto d’amore con la Roma ha vissuto anche di ombre, fantasmi e spirito di rivalsa, tanto da far dire a Walter Sabatini un’epigrafe sintomatica: «Siamo entrambi dei danneggiati mentali».
Stavolta, però, l’allenatore toscano di sicuro non sospetta complotti quando, all’annuncio delle formazioni, l’Olimpico compatto lo fischia quando l’altoparlante scandisce il suo nome. Fischi forti, feroci, programmatici, più di quelli riservati a qualsiasi interista. «Spalletti pezzo di merda», ringhia forte la curva Sud e mentre l’allenatore si avvicina a bordo campo quasi in segno di sfida la curva aggiunge l’antico coro: «Totti, Totti, Totti gol». Come dire, per il tecnico c’è un passato che non passa, a differenza invece di quanto succede a Walter Sabatini – altro ex di lusso – che prima della partita passeggiava serenamente per il campo, senza fastidi da parte del pubblico. Nessuna sorpresa. La storia di Spalletti è altro. L’antica ruggine con Totti – per quanto ormai superata dagli eventi – rimarrà nell’immaginario collettivo del tifo giallorosso come simbolo dell’era Spalletti. A dire il vero in modo persino esagerato, visto che per punti, gioco e trofei il passato dell’allenatore toscano è stato ben altro e ben di più che il solo braccio di ferro finale con l’ex capitano. Per questo gli abbracci che scambia all’arrivo allo stadio e a fine partita con tutto il suo mondo giallorosso sono sinceri, perché Roma è stata casa sua per davvero.
Eppure in ogni situazione in cui l’occhio dello stadio convergeva su di lui (una rimessa laterale, un controllo di palla) i fischi lo sommergono, così come gli applausi travolgono Totti nella sua prima uscita all’Olimpico da dirigente. D’altronde, lo stesso Spacey – nella Capitale per le riprese del nuovo film di Ridley Scott – ha scelto di scattare un selfie, manco a dirlo, con il capitano di una generazione giallorossa. L’impressione, però, è che il tecnico non ne senta affatto la mancanza, dopo la dolcezza di una vittoria straordinaria. «Francesco non l’ho incontrato, ma se lo avessi fatto gli avrei dato tutta la mia amicizia. I tifosi mi hanno fischiato perché pensavano che fossi io il motivo dell’addio di Totti, ma io quest’anno non ci sono più quindi avrebbero potuto farlo continuare a giocare. Quindi diciamo che mi hanno fischiato i“tottiani”, mentre molti romanisti mi hanno inviato messaggi amichevoli». Di sicuro, però, i tottiani sono molti di più, visto che anche all’uscita dal campo gli insulti gli piovono addosso. La vittoria, però, annacqua l’amarezza di Spalletti, o forse acuisce il senso di rivalsa, tant’è che nel dopo partita nega alla Roma anche lo spunto polemico. «Non era rigore – spiega il tecnico –. Il mio difensore non prende la palla, ma non provoca questa botta. Poi certo la Roma è stata sfortunata. Nel calcio la sorte occorre e noi l’abbiamo avuta, ma va dalla parte di chi ha il coraggio di fare le cose e noi abbiamo sempre martellato. Siamo stati premiati per quello che facciamo, anche se sarebbe sbagliato ora parlare di scudetto». Possibile, ma la notte romana per Spalletti è così dolce che forse nel suo cuore vale molto, molto di più.