A Jim Pallotta, ovunque egli sia, soprattutto dove non è e dove dovrebbe essere. La sua lettera ai tifosi si chiama “il minimo dovuto”. Certo, molto meditata e probabilmente ancora di più sofferta. Certo, imperdonabilmente tardiva, con l’attenuante del dover metabolizzare la valanga d’insulti arrivati da ogni parte. Su questo, totalmente dalla sua parte: ignobile coinvolgere le donne della sua famiglia. Ma un leader deve rispettare l’inesorabilità di uno spartito, quando parlare, quando tacere, quando spiegare e quando omettere o aspettare. Costi quel che costi.
La Roma di questi tempi aveva bisogno delle sue parole, purché alle parole seguano i fatti. E non sappiamo se basteranno. Ha il demerito, la sua lettera, di essere arrivata solo dopo l’articolo di “Repubblica” e la marea tossica che ha reso irrespirabile Trigoria. Non era più differibile una replica, che non fosse la “supercazzola” dei comunicati. Il silenzio di Pallotta e dei suoi stava diventando qualcosa al confine tra il suicidio e la provocazione. Suonava strategicamente stupido e mediaticamente sprezzante.
Ha il merito, la lettera, di toccare tanti, se non tutti, i temi sensibili che di questi tempi deprimono il morale della Roma al suo interno e il suo appeal all’esterno. Anche se spesso sono spiegazioni che non spiegano e restano tante le omissioni. Molte storie, ha ragione, «le abbiamo già sentite».
I trofei da sollevare, l’orgoglio da riaccendere, il «bla bla» che lei stesso evoca con lodevole senso dell’umorismo. E le questioni inevase. Se Totti è così stimato in società perché resta tanto marginale? Se non è stato Baldini a decidere l’out di De Rossi, chi allora? E se De Rossi era così amato e stimato, perché ora se ne sta in Giappone umiliato e offeso? Ancora. La sua squadra è stata annichilita da un madornale equivoco che per comodità chiameremo “Monchi”, un mix tra Attila e Vercingetorige, chi l’ha scelto e voluto questo equivoco?
Proviamo a considerarla, questa lettera, con tutti i suoi limiti, il punto zero da cui ripartire per provare a rigenerare un rapporto con i tifosi. Impresa paragonabile a quella di scalare l’Everest con i tacchi a spillo. Premessa fondamentale: si convinca che, se i tifosi sono arrivati a pensare tutto il peggio possibile di lei e della sua gestione, non è solo colpa dei giornali e delle radio. Una mano gigantesca l’avete data voi, lei e suoi uomini sparsi nel mondo.
Tutti abbagli e granchi? Avete fatto poco o zero per non farli apparire tali. Se Trigoria è davvero quel piccolo Vietnam che si racconta, tra guerre fratricide, sussurri, faide e sospetti, questo è perché manca da troppo tempo, se non un Pallotta, almeno un suo credibile alter ego. Apprezziamo che lei scriva: «Verrò più spesso a Roma». L’aveva già detto in passato. Nel paese che ha inventato Pulcinella, certe licenze non sono ammesse.
Un’ultima cosa. Se, come si dice, dopo i quaranta ognuno è responsabile della sua faccia, sappia che la sua è una bella faccia da lupo. Faccia qualcosa per ricongiungersi romanisticamente con la sua faccia. Impari cosa vuol dire essere un presidente della Roma. Gli esempi virtuosi non mancano. I titoli verranno di conseguenza. Lo stadio pure. È vero, la sua vita non cambierà accumulando più denaro ma cambierà quella dei tifosi se saprà renderli nei fatti orgogliosi.
Le rinnoviamo l’invito. Qui e sempre. A prescindere. Lasci stare le vie comode del messaggio disincarnato, tweet, mail, telefonate, pizzini. Venga da noi con la sua carne, le sue ossa, la sua storia, a raccontare perché un giorno la Roma sarà quella che lei promette da anni. Magari ripartendo da quel nome, Daniele De Rossi, in questi giorni così brutalmente infangato. Ripartiamo da lui, anche se non sappiamo quanto lui voglia ripartire da voi.
FONTE: Il Corriere dello Sport – G. Dotto