Gli atti già in mano ai pm basterebbero per arrivare subito al processo sull’affaire Tor di Valle. Ma la procura di Roma vuole continuare a indagare sul cosiddetto sistema Parnasi, perché stanno emergendo presunte responsabilità di altri politici e di altri funzionari capitolini, rispetto a quelli già travolti dal ciclone dell’inchiesta che, il 13 giugno, aveva portato in carcere lo stesso imprenditore Luca Parnasi e i suoi collaboratori, e aveva fatto finire ai domiciliari uno dei consulenti di punta della sindaca Virginia Raggi, l’avvocato Luca Lanzalone.
Il faro dei pm è rivolto verso i legami opachi della famiglia di costruttori con i palazzi del potere, allacciati anche molti anni fa e che sono raccontati dall’intercettazione che meglio di tutte riassume il modus operandi del gruppo Parnasi, cioè la corruzione intesa come asset d’impresa: «Spenderò qualche soldo sulle elezioni – diceva Luca Parnasi a un collaboratore – è un investimento che devo fare, molto moderato rispetto a quanto facevo in passato, quando ho speso cifre che manco te le racconto». Partendo da quella conversazione captata e, soprattutto, dalla ricerca delle «cifre spese in passato», l’inchiesta si è allargata, tanto da convincere la pm Barbara Zuin a procedere con il rito ordinario: concedersi altro tempo per indagare, evitare il rito immediato, che costringerebbe gli inquirenti a una discovery degli atti in loro possesso e porterebbe l’imprenditore e i suoi soci sul banco degli imputati saltando la fase dell’udienza preliminare. Ora, i pm puntano a un maxi-processo, mentre gli indagati diventano più di trenta. L’ultimo a confrontarsi con i magistrati è stato l’ex vicepresidente del consiglio regionale, Adriano Palozzi (FI), tuttora ai domiciliari.
Parnasi, invece, è stato mandato ai domiciliari il 7 luglio, dopo 37 giorni di carcere e due interrogatori. Il gip Maria Paola Tomaselli ha deciso di alleggerire la misura cautelare a suo carico dopo il secondo interrogatorio con i pm e dopo le ammissioni sull’ormai ex consulente ombra della sindaca, Lanzalone, incaricato di seguire per il Campidoglio il progetto stadio. Ma non è stato l’unico argomento finito sotto torchio.
L’INTERROGATORIO – L’interrogatorio di Parnasi è stato in gran parte secretato, perché da lì sono partite le nuove indagini. Gli inquirenti gli hanno chiesto conto di quell’intercettazione, del metodo di corruzione «stile anni 80» – diceva intercettato un suo collaboratore – che consisteva, da sempre, nel pagare tutti per ottenere favori. Sarebbero emersi altri nomi, rispetto a quelli già citati nelle carte. Le indagini non riguardano più solo la consulenza da 25mila euro alla società Pixie riconducibile a Palozzi, o la presunta corruzione dell’ex assessore Michele Civita (Pd) – l’assunzione del figlio in cambio dell’appoggio nell’affaire «stadio» – o il favore a Paolo Ferrara, ex capogruppo dei Cinquestelle in Campidoglio che, in cambio di presunte intercessioni, avrebbe ottenuto un progetto per il restyling del lungomare di Ostia da rivendicare con l’elettorato. Dalle indagini sarebbero emersi legami opachi con altri esponenti dei palazzi del potere e funzionari, che avrebbero favorito le aziende di famiglia – Eurnova e, prima ancora, Parsitalia – quando era ancora in vita il capostipite della famiglia, Sandro Parnasi, che aveva avviato il progetto dello stadio.
LA LISTA – Ai magistrati, Luca Parnasi aveva consegnato la lista dei quindici candidati sostenuti alle ultime elezioni regionali e politiche con finanziamenti in chiaro ma rigorosamente sotto soglia – 4.500 euro a testa – in modo da non essere obbligato a metterli a bilancio. Un elenco che si aggiungeva ai dieci nomi che risultavano già dalle intercettazioni e sui quali sono in corso accertamenti del Nucleo investigativo dei carabinieri. L’imprenditore avrebbe fornito elementi che fanno fare all’inchiesta un salto oltre i confini del Campidoglio e oltre al caso del nuovo stadio della Roma.