Non è l’unico oggetto misterioso avvistato a Roma e poi volato via verso altri cieli, per demeriti personali o incomprensioni altrui. Eppure, intorno a Gustavo Bartelt c’è sempre stato un alone tristemente romantico. Forse legato all’impattante discesa in scena il 17 Ottobre 1998 contro la Fiorentina, in una gara marchiata con due assist decisivi mentre l’Olimpico infilava il cappotto per congedarsi amareggiato: «È vero, in quella partita giocai pochi minuti, ma tutti me la ricordano ancora. Per me fu bellissimo, ma non mi aiutò ad impormi a Roma».
Gustavo non riuscì ad arrestare quella discesa prepotente che lo accompagnò presto a grattare il fondo del dimenticatoio, quella partita non valse al ‘Facha’ l’apertura delle porte della Città Eterna. Il motivo? Lo spiega direttamente: «A Roma sono stato poco tempo però mi è rimasta nel cuore. Non ho mai voluto parlare male di nessuno perché tutti mi hanno sempre trattato bene. Il personale di Trigoria, i compagni, la gente, mi hanno fatto sentire uno di loro. Tutti, tranne il presidente e l’allenatore che non mi volevano. Avevo segnato 15 gol in 17 partite e mi voleva mezza Europa. A Roma Zeman cercava un 9 che segnasse tanti gol e forse per questo mi comprarono. Ma fin da subito capii che non avevo la fiducia della società. Non mi prendevano in considerazione. Al tempo ero molto giovane, non seppi mai bene come andò il mio trasferimento. Non sapevo nemmeno che tipo di contratto avessi! Ora che sono più maturo dico che avrei dovuto approfondire tutti questi aspetti».
Sensi gli disse: “Leva i tatuaggi e tagliati i capelli sennò non giochi”. Fu una premonizione: «Alla prima partita con la Roma, in Coppa Italia, segnai subito un gol. La Gazzetta mi premiò come migliore in campo. Un buon inizio no? Da lì non giocai più. E non ho mai capito il perché. Ebbi molte difficoltà nel primo periodo. Ero argentino, non conoscevo la lingua e non fui aiutato ad inserirmi. Giocavo poco e mai dall’inizio. Non mi venne mai data una possibilità. E soprattutto non capivo tatticamente quello che mi chiedeva Zeman, un allenatore particolare. Per fare un esempio quando a gennaio arrivò Fabio Junior, lui ci mise cinque partite per segnare il primo gol, ma nonostante questo gli venne dato il tempo di giocare per ambientarsi. In più aveva sempre accanto un traduttore, cosa che a me non venne mai concessa. Credevo di meritarmi un po’ di fiducia, ma anche dopo quella partita non iniziai a giocare con regolarità. I miei compagni mi dissero di andare via, sapevano che non mi avrebbero fatto giocare, tanto che Di Biagio mi consigliò di andare a giocare in un’altra squadra».
Capello subentrò poi a Zeman, ma l’esito, per l’ex giocatore del Lanus, non cambiò: «Prima di partire per il ritiro austriaco la società mi disse: “Non venire, a Capello non piace il tuo modo di giocare”. Ma io non capivo il motivo, l’allenatore non mi aveva mai visto! Dopo due giorni arrivai in ritiro, spinto dal mio procuratore. Mi allenavo con la squadra, ma ero solo in attesa di un’altra sistemazione. Alla prima amichevole mi misi in panchina, convinto che a Capello non interessassi. Vedendomi mi disse: “Che fai seduto da solo lì?”. “Niente mister, se lei non mi vuole..”. E lui subito: “Vieni qui, mettiti sulla destra”. Risultato? Segnai due gol. Ma anche quell’anno solo panchina».
Lo scandalo passaporti fece infine il resto, mettendo alla gogna la sua carriera europea: «Quando ci fu la questione passaporti il presidente non mi volle aiutare, come fece con altri giocatori. Io volevo parlare con lui per risolvere la situazione, ma lui non voleva parlare con me. La Roma non mi lasciò andare via, non mi faceva allenare e neppure mi pagò i due anni di contratto. Né la Federcalcio fece mai nulla affinché la Roma risolvesse la situazione”. «Nessuno mi difese, nemmeno il mio avvocato. Io non seppi mai cosa accadde dietro le quinte, perché non era mia intenzione entrare in conflitto con nessuno e cercai sempre la soluzione del dialogo. L’unica cosa che mi fu concessa era parlare con il mio avvocato. Che ogni mese mi prospettava una soluzione prossima, cosa che puntualmente non avveniva. Per la società sembrava tutto normale. Addirittura i miei compagni andarono da Sensi per intercedere, volevano che io giocassi. Ma il presidente non li volle nemmeno ascoltare. Sono stato discriminato dalla Roma, credo proprio fosse una cosa personale. Ancora oggi in me rimane il grande dispiacere di non aver fatto bene a Roma, per colpa di una situazione che, essendo al tempo ventitreenne, non compresi mai appieno».
Amato in due minuti e odiato per il resto di una carriera italiana tribolata, mozzata alla nascita. L’eroe incompreso Gustavo ha smesso anche altrove: «Adesso vivo a Buenos Aires. Ho finito di giocare tre anni fa e ho una società di costruzioni in Argentina. Sono stato allenatore dell’All Boys e ora sono in trattative per diventare l’allenatore della Primavera del Lanús. Ma Roma mi è rimasta nel cuore, ho ancora tanti amici. Mi sento ancora con Montella, Candela, Aldair, Di Biagio. Vincenzo è anche venuto a casa mia due anni fa, quando allenava la Fiorentina».
Odiato da tutti, tranne uno: «Francesco è un amico. Mi aiutò tantissimo allora, anche la sua famiglia, fin dall’inizio. Gli ho fatto anche gli auguri per il suo compleanno tramite un amico in comune, perché chiamarlo al cellulare era un casino quel giorno. Sono davvero contento che ancora giochi. Lui è il sole e l’anima della Roma. Può giocare anche a 40 anni perché ha delle capacità e una visione del gioco che gli altri non hanno e che gli permette di rimanere ad alti livelli. Deve poter giocare fin quando lui lo vuole».
Eppure Bartelt non porta rancore: «Ho anche tatuato il simbolo sulla gamba. Roma per me è stata un’esperienza forte, continuo a seguirla ancora oggi. Seguo sempre le sue vicende». Vorrebbe tornare, Gustavo: «Sono stato a Roma tre anni fa, ma mi sono ripromesso di tornare. Oggi la mia priorità è stare con i miei tre figli, che sono piccoli. Valentina ha 15 anni, Santino 13 e Vincenzo ne ha 7. Tutti e tre hanno nomi italiani, Santino ora comincia a giocare nel Velez e chissà che domani non giochi dove ha giocato papà. Io lo spero tanto e proverò ad aiutarlo un po’, perché sarò sempre un tifoso della Roma. Mi ricordo la gente che mi volle bene e mi aiutò, ma ricordo bene anche chi non lo fece. Forse se non ci fossero stati tutti questi problemi, la mia carriera sarebbe stata differente. Amavo stare in Italia e solo pensare che l’anno dopo il mio addio la Roma vinse lo Scudetto…».
E come l’argentino, anche Roma non dimentica colui che per cinque minuti è stato il padrone del cielo e il re della Città Eterna.