‘La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove’. Dante Alighieri, canto I del Paradiso. Lo splendore di colui che tutto move, la gloria. Senza necessità – manzoniana – di procrastinare ai posteri la celebre domanda. Non ce n’è bisogno. Lui, Matteo Brighi non l’ha mai cercata. Gli è arrivata, degno riconoscimento per la sua umiltà, il suo farsi voler bene da tutti, il suo ‘stare in punta di piedi’. Parliamo con gli atteggiamenti prima ancora che con le parole. Serio, tranquillo, timido. “Un domani vorrei essere ricordato per l’aver provato a fare sempre il massimo, mi basta questo”. La mediocrità aurea, massima ambizione di un antidivo. Che di commedie (divine) ne ha scritte tantissime. Apparendo pochissimo sì, ma il fato non tralascia mai nulla prende e assegna a ciascuno in proporzione al merito. Ci piace pensarla così.
E allora Matteo raccontaci del tuo Paradiso calcistico. Bello e semplice, “come i valori che mi ha inculcato la mia famiglia e che mi sono serviti da guida in tutto quello che ho fatto. Questo mondo secondo me è diventato troppo televisivo e appariscente. Servirebbe più umiltà ed educazione, quando ero giovane ai campioni di 30 anni si dava del ‘lei’ nello spogliatoio. Oggi un ragazzo di vent’anni può fare e dire quello che vuole. Fa due partite bene e già ha la scarpa col nome. Ricordo alla Juventus c’era la possibilità di cambiare le scarpette una volta a settimana. Io mi sentivo spiazzato, ‘ma perché devo cambiarmele che le ho prese pochi giorni fa e sono ancora nuove?’. I giovani di adesso invece se le cambiano continuamente, tanto mica le pagano loro”. Saggezza sopraffina, gli antiqui ac boni mores. La fermezza e la semplicità di una weltanschauung ormai sempre più rara. Brighi quale ultimo paladino della splendida età augustea? “Magari! Dopo aver vissuto Roma… Una città fantastica, eterna appunto. Quando esci per le vie del centro o vai al Colosseo senti sulla pelle la maestosità della storia, l’eco dell’Impero. Sei al centro del mondo”.
Cominciamo il viaggio nella selva, che in questo caso è luminosissima. Prima fermata, Torino. “Dopo aver fatto un mezzo anno con il Rimini in C venne a cercarmi la Juventus. Io dissi ‘no’, volevo rimanere qua e fare l’ultimo anno di superiori. Fu una decisione strana, avevo 17 anni. Ma il mio era un ‘no di speranza’. Della serie – racconta Brighi ai microfoni di GianlucaDiMarzio.com – ‘se sono bravo ribusseranno alla mia porta’. Maggio dell’anno successivo…”. Toc…toc? “Sì! Come la mia risposta. Mi ero preso il diploma da Ragioniere ed ero pronto”. Un’estate di pensieri, ‘chissà come sarà lo spogliatoio’, ‘come dovrò fare per ambientarmi?’. Niente paura, niente tedium. Ci sono i ragazzi della parrocchia a far svagare il nostro protagonista, assai pensieroso dinanzi all’ermo colle e la siepe affine. “Facevo l’animatore nei vari campeggi estivi. Ho ricordi bellissimi, era una cosa che accresceva me nella speranza di dare anche qualcosa agli altri. Mi è sempre piaciuto stare con i bambini, se non avessi sfondato nel mondo del calcio avrei fatto il maestro. Mi trasmettono gioia e armonia”. Una partitella a calcio e un’altra a palla scout, passa in fretta l’estate. Le aspettative ben presto lasciano il posto alla realtà contingente. “Nei primi allenamenti mi impressionò Zidane, faceva le cose più difficili con una semplicità unica. Poi gente come Davids e Montero che trainava lo spogliatoio, non ti faceva sgarrare di una virgola. Il primo giorno li è stato come quando porti un bambino a Gardaland per la prima volta. Come il fanciullino di Pascoli, ero ammaliato e stupito da tutto. Ogni giorno una scoperta nuova, bellissimo. Ad ogni allenamento mi brillavano gli occhi. Con la mia timidezza e la mia paura di dire qualcosa che magari potesse risultare sbagliato, stavo lì al mio posto, provavo ad ascoltare ogni consiglio e la sera raccontavo tutto a mio fratello. In quelle lunghissime chiacchierate al telefono…”.
La seconda tappa, l’apice della sua carriera: Roma caput mundi. Il Brighi giallorosso è più maturo… “Ho capito tante cose che magari prima non riuscivo a comprendere perché ero troppo giovane. Roma è Roma che altro bisogna aggiungere? La gente ti fa sentire la passione per la maglia e per i colori giallorossi dalla mattina quando vai a fare colazione al bar alla sera che vai a dormire. Il clima è quello della partita perenne, bellissimo. E poi anche lì ho conosciuto tanti campioni”. Più ‘qui’ che ‘lì’, perché quando si lascia un ricordo bello è come se questo fosse sempre vicino a te. La geografia non può deviare le traiettorie del cuore. “Checco (Totti) a livello umano è eccezionale. Anche se sei l’ultimo arrivato lui non ti fa mai sentire che è Totti, uno dei giocatori più forti della storia. E’ uno spontaneo e sempre pronto a fare scherzi. Ricordo ancora i questionari di cultura generale che preparavamo per Okaka e Cerci. Non vi dico le risposte…e le risate! Poi c’era Spalletti che è un altro sanguigno, schietto. Dalla mattina presto alla notte, per qualsiasi cosa lo trovavi a Trigoria con il suo staff. La doppietta in Champions contro il Cluj è stato il mio ricordo più bello, la maledettissima partita contro la Sampdoria quello più brutto. Se non ci si fosse messo Pazzini, avremmo vinto lo scudetto”.
Poi il Toro (“ma non ho mai sentito il passaggio dalla Juventus perché non credo di aver lasciato molti ricordi lì”) e un moto perpetuo per lo Stivale. Con la stessa umiltà, la stessa fame e gli stessi occhi del ‘fanciullino’ del primo giorno in bianconero. In valigia sempre un libro da leggere e ogni tanto qualche partitina a golf. Non vuole sentir parlare di tatuaggi e anche con la tecnologia il rapporto non è dei migliori (“Al massimo qualche skills di Roberto Mancini, il mio modello per estrosità e fantasia”). Meglio regalare un sorriso o un pallone a un bambino o ad una persona in difficoltà. Come pochi giorni fa, nella visita a Norcia alle popolazioni terremotate.
L’ultimo (speriamo di no) capitolo della Commedia è di colore biancorosso: Perugia. “Si è creato un gruppo fantastico, ogni tassello è armoniosamente al suo posto. E poi c’è mister Bucchi che ha la voglia di un ragazzino e la mentalità di un allenatore già affermato. Qui c’è tutto per fare bene, siamo tutti in simbiosi. Manca soltanto che Dezi paghi la cena…”.
Fine del viaggio, purtroppo. Tra ricordi e amarcord, non è difficile descrivere Matteo Brighi. Con quel timido sorriso e quel volto da bravo ragazzo. Guai a parlar di gloria e fasti, solo umiltà e “fare del bene, per quel che si può”. Perché la fama, la notorietà non è né l’orecchino che nessuno ha, né il suv extralusso. E’ lo spendersi per gli altri, l’aiutare chi ha più bisogno. “Mi mancano i tempi in cui facevo l’animatore, ormai i bambini sono tutti cresciuti spero solo si ricordino di me”. Sarà senz’altro così, perché la tua sì: fu vera gloria.