Ufficiosamente, Eusebio Di Francesco non è in discussione. La Roma, per ora, non pensa ad un cambio in panchina. Si va avanti con lui perché – sostengono – il traguardo minimo stagionale (arrivare tra le prime quattro del campionato) è ancora alla portata del gruppo, e in più c’è da giocare un ottavo di ritorno di Champions. E forse anche perché non può essere soltanto colpa del tecnico se le cose adesso non vanno come dovrebbero. Nulla è perduto, in sintesi, anche se molto è andato già sprecato. Tipo, la Coppa Italia. Arrivati a questo punto, però, le strade da percorrere sono soltanto due: cacciare l’allenatore o dargli forza. Con i fatti, non solo a parole. La palla, insomma, passa alla società. Far finta di nulla sarebbe un grave errore; anzi, la premessa di altri errori più pericolosi.
Era lecito aspettarsi, prendendo un allenatore alla sua prima esperienza in una grande società, che le difficoltà prima o poi sarebbero arrivate, specie se all’allenatore in questione non è stata data una rosa completa. È giunto il momento che il club dimostri la sua presenza. In un senso o nell’altro. Se si sceglie la strada della continuità, almeno fino al termine della stagione, non si dovrà più cambiare direzione. E non soltanto perché, al momento, su piazza non ci sono valide alternative. Di Francesco, però, deve dimostrarsi meno incline ai compromessi, con tutti. Esentarlo da responsabilità sarebbe da irresponsabili: nessuno nella Roma oggi può o deve sentirsi incolpevole. Compresi (o in primis?) quei calciatori che camminano anziché correre e che giocano ognuno per conto loro senza seguire uno spartito comune. Ma perché non vogliono farlo o perché nessuno ha insegnato loro come farlo?