Nel Centro nazionale di Tubize dorme anche se i giocatori hanno avuto un giorno di libertà. Davanti al suo cappuccino, Roberto Martínez, tecnico catalano del Belgio è rilassato e sorridente, pedagogico su certi punti, a volte impaziente su altri ma sempre con la volontà di far chiarezza sulle zone d’ombra.
Martínez, com’è il bilancio dopo due anni alla guida dei Diavoli Rossi?
«Abbiamo giocatori che sanno cosa significa entrare in nazionale e sono completamente devoti alla squadra. Ho un gruppo di ragazzi abituati a giocare insieme da quando erano ragazzini. Sono cresciuti insieme. I bambini dell’epoca sono diventati grandi campioni ma quando vengono in nazionale tornano a essere i bambini che erano. È un sentimento che si ritrova nelle selezioni del Sudamerica. Le europee sono più pragmatiche, mentre in Sudamerica c’è quell’orgoglio di rappresentare il Paese, di ritrovarsi».
Le capita di sentir aleggiare nel gruppo la realtà del suo paese d’adozione, diviso tra Fiamminghi e Valloni? «No, mai. Quando sono insieme, i ragazzi sono prima di tutto calciatori. Forse perché io sono neutrale e la comunicazione ha luogo in inglese, ma non ho mai percepito una differenza. Le differenze che si notano sono quelle tra i giocatori partiti presto per l’estero e quelli partiti più tardi, tra quelli che crescono in grandi squadre e gli altri. Vivendo all’interno del gruppo, si nota più il percorso individuale che le sue radici linguistiche».
Al momento di firmare il contratto contava davvero di restare per più di due anni? «No. Nella mia testa mi impegnavo per due anni. Arrivavo da 7 stagioni in Premier League. L’obiettivo era far qualificare la squadra e guidarla durante la Coppa del mondo. Però ho cominciato a interessarmi ai giovani, all’eventualità di preparare l’avvenire, e ho sentito che per il calcio belga sarebbe stato un bene se avessi continuato».
Perché non ha chiesto un aumento del compenso? «Se avessi fatto questo lavoro per i soldi non avrei mai accettato una nazionale, sarei rimasto in Inghilterra. Preferisco che il denaro sia investito in altri ambiti, organizzazione, infrastrutture, per diventare più forti».
Negli ultimi tempi è stato bersagliato dalle critiche. «Capisco che certe decisioni siano più popolari o più accettabili di altre, ma sono prese con onestà e senso di responsabilità. Non è la reazione alle decisioni che deve essere buona, ma la decisione in sé».
I Belgi sono troppo critici, troppo impazienti? «Credo di no. Ma è vero che durante le qualificazioni, quando segnavamo gol a valanga, la gente si è concentrata sul fatto che ne incassavamo molti. Ci si accanisce sempre su quel che non abbiamo».
Non si può dire che la comunicazione attorno alla saga Nainggolan sia stata chiara. «Al contrario, siamo stati chiarissimi! La ragione della sua esclusione, che la gente l’accetti o meno, è una ragione tattica».
Ma gioca nel campionato più tattico al mondo… «Non parlo della sua intelligenza tattica ma del modo in cui gli attaccanti sono disposti nel mio sistema. Non si può giocare con più di 11 giocatori in campo. Quando si gioca con Hazard, Mertens e Lukaku nei ruoli offensivi, bisogna prendere delle decisioni tattiche».
E non era possibile inserirlo nei 23, anche se non fa parte della squadra tipo? «Devo restare neutrale. Se non lo fossi, avrei preso Mirallas, con cui ho lavorato per cinque anni all’Everton. Ma devo valutare quello di cui la squadra ha bisogno. Questa procedura l’ho applicata con Mertens, con Hazard e anche con Nainggolan. E siamo arrivati alla conclusione che ci sono giocatori che hanno bisogno di essere protagonisti e altri sono gregari. Per i media è più interessante pensare che dietro la mancata convocazione di Nainggolan ci sia un attrito tra lui e me, per esempio. Ma, spiacente, non è questo il caso».
Le pesa che la gente non creda al motivo tattico? «Sarebbe stato molto più facile per me convocare i giocatori popolari: ma non sarebbe stato professionale. Non sarei mai sopravvissuto 7 anni in Premier League se avessi badato alla reazione della gente».
Anche se la rende impopolare? «Certo. Quando ci si sente compresi è più facile. Ma il mio lavoro non è di essere popolare. Bisognerà giudicarmi per quel che succederà in Russia, non per la selezione».
Tra lei e Nainggolan sembra che le cose non abbiano funzionato fin dall’inizio… «No no. Non è sempre stato convocato, è vero, ma ogni volta per motivi diversi. Che cosa dovrebbero pensare Origi o Mirallas, che negli ultimi due anni sono sempre stati convocati? Dobbiamo avere una squadra equilibrata».
Non è pericoloso andare in Russia con due soli attaccanti? «Lei ne conta due, io potrei contarne 4 perché nel Napoli Mertens ha giocato come attaccante per tutta la stagione e anche Hazard ha giocato qualche volta così. Preferivo raddoppiare i numeri 10: tra Mertens, Eden e Thorgan Hazard, Januzaj, abbiamo soluzioni di ricambio».
Flessibilità è più che mai la sua parola chiave? «Siamo una squadra costruita per avere il pallone. Perciò dobbiamo avere delle personalità che abbiano la capacità di conservarlo. E dobbiamo aggiungere un elemento fisico capace di permetterci di recuperarne il possesso il più velocemente possibile».
Vuole fare del Belgio una piccola Spagna? «No no, non è nelle mie intenzioni. Il Belgio è unico. La maggioranza dei giocatori va a giocare in Inghilterra, dove il gioco è intenso, basato sulla transizione, con molti contatti. A questo i giocatori belgi aggiungono la loro tecnica. La facilità nell’uno contro uno non ha uguali, nemmeno nella Spagna».
Pensa che ci si aspetti troppo dal Belgio? «Abbiamo un gruppo formidabile, portiamo la speranza della nazione.Ma non bisogna aspettarsi di essere perfetti, di vincere 3-0 con Panama.
Non va così ai Mondiali».
Due anni fa annunciava di voler vincere il Mondiale. Oggi sembra più misurato…«L’Italia non potrà vincere, l’Olanda nemmeno. Noi invece possiamo. Non andiamo per vincere ma per cercare di vincere. Il fallimento sarebbe non provarci».