Per dare un’idea di quanto tempo sia passato, basta dire che una delle stelle di allora era Charlie Chaplin. Che senza saperlo era anche protagonista delle cronache degli stessi giorni. Nativo del sobborgo londinese di Walworth, genio assoluto del cinema muto, dopo aver raggiunto il successo si trasferì negli Stati Uniti. Ma senza fare molto per nascondere il fatto che quello americano non fosse propriamente il suo modello ideale. Da qui alla pubblica accusa di filocomunismo, avvenuta all’uscita del suo Monsieur Verdoux, passò poco. D’altronde il senatore Joseph McCarthy ne fece la ragione del suo mandato, additando tra gli altri anche l’attore nel 1949. Chaplin negò continuamente, rimandando ogni volta al suo Charlot, che a suo dire rincorreva ideali del tutto democratici. Ma Charlot in Monsieur Verdoux non c’era. Dando la sensazione di un Charlie Chaplin più vulnerabile e di conseguenza più facile da colpire.
La condanna definitiva arrivò mentre Chaplin era in navigazione verso Londra per la prima mondiale di Luci della ribalta. Pellicola per niente banale se pensiamo che è tratta da un suo romanzo non pubblicato intitolato Footlight, che si tratta dell’esordio cinematografico della figlia Geraldine, e che al suo fianco recita Buster Keaton. A causa di quella condanna, però, rimarrà l’ultima prodotta a Hollywood. Perché a Chaplin venne imposto che se voleva fare ritorno nel paese in cui risiedeva doveva dimostrare di essere “idoneo”. Lui, senza scomporsi, restituì alle autorità americane il permesso di rientro. Era il 1953. Si stabilì in Svizzera e dichiarò di non voler più mettere piede negli Stati Uniti. Non sarà così. Ci tornerà. Una volta sola. Nel 1972, per ritirare l’Oscar alla carriera.
Negli stessi mesi Angelo Motta, pasticcere milanese già a capo di qualcosa che somigliava a un impero, era al lavoro su una variante del prodotto che lo rese ricco e famoso: il panettone. Al quale già aveva dato la forma più alta, grazie al metodo della lievitazione naturale. Creò una brioche che ne ricordava vagamente le sembianze, il Mottino. La vera svolta arriva con il cambio di nome. Quando diventa Buondì, e automaticamente i consumatori lo associano al primo mattino. La strategia commerciale viene completata dal fatto che viene distribuito anche nei bar, diventando di fatto fruibile in ogni tipo di situazione.
Proprio l’aspetto pubblicitario è sempre stato uno dei punti forti della Motta. Furono tra i primi a dare una certa attenzione alla comunicazione, arricchendo il linguaggio comune di nuovi modi di dire dall’utilità comunque da valutare. Non c’è uno che si chiama Gigi, da allora, che non si senta chiedere se c’è anche la Cremeria. I loro spot hanno visto tra i protagonisti un Jovanotti agli albori musicali, hanno lanciato attori come Stefano Accorsi e Cristiana Capotondi, hanno cambiato parquet e terra rossa a sportivi come Andrea Giani e Davide Sanguinetti. In questi giorni, invece, la nuova campagna pubblicitaria televisiva è stata al centro dell’attenzione. Discussa e parodizzata in ogni forma. Ne ha guadagnato la Nazionale, che ha onorato l’ennesima inutile e non richiesta pausa del campionato con due prestazioni indecorose ma ha trovato una notizia alquanto poco importante a rubarle l’attenzione.
Il Buondì ha ricoperto vari ruoli nell’esistenza di ognuno di noi. Fu protagonista, per esempio, durante una breve vacanza a cavallo del Ferragosto di parecchi anni fa passata con i piedi sullo snowboard e la testa tra le nevi di Carosello 3000. Una cosa normale praticamente mai. Quando non eravamo impegnati a bussare con delle scuse alle porte di sconosciuti per poi fingere di aver sbagliato camera in un noto hotel di Livigno (nel quale, particolare fondamentale, neanche alloggiavamo), il Buondì rigorosamente nella variante al cioccolato era la nostra compagnia fissa. Mia e del mio amico Alberto. Che ne doveva essere il tesoriere, in quanto unico munito di zaino. Si lamentò pure del fatto che a lui non piacessero, ma di ritorno da una mezza giornata passata su piste diverse la quasi intera scatola che custodiva si era inspiegabilmente volatilizzata. O meglio: la scatola c’era ancora, e i piccoli involucri anche. Chissà dove sono atterrati quei sette od otto.
Ha una certa attinenza anche con il calcio. Giuseppe Signori, ogni estate a partire proprio da quella di Carosello 3000 (ma, calendario alla mano, era soltanto il 2000), sfidava i nuovi arrivati al Bologna a mangiarlo nel tempo necessario a fare trenta passi. “Lasciate il cinquantino nelle mani di Beppino”, finiva sempre così. Perché si faceva dare 50.000 lire prima di cominciare e se ci fossi riuscito ti avrebbe restituito un milione. Mai pagato milioni a nessuno. La grande difficoltà pare essere proprio nella totale assenza di creme, che rallenta il processo di masticazione. Forse quelli al cioccolato in trenta passi si possono anche fare. In tre seggiovie si fanno di certo.
Ma l’uomo di questi giorni è un altro mancino che alla Sampdoria hanno ammirato. Molto più di quanto fecero con i 3 gol in 17 presenze dell’ex attaccante di Foggia e Lazio. Il passo non è corto come quello di Signori (per cui lascerei perdere a prescindere ogni tipo di sfida riguardante merendine, per quanto non si sa se Signori si sia mai messo alla prova in tal senso), ma il manciolo è educato tanto quanto il suo. Un piccolo infortunio per prendere confidenza con la nuova realtà. Un altro per sentirsi del tutto romanista. L’attesa che cresce per Patrick Schick. Mentre il pareggio contro l’Atletico Madrid sfuma la prima notte di Champions League con una serie di accesi dibattiti.
Un tempo alla pari con chi negli ultimi anni ha visto per due volte la Champions (intesa proprio come gli 8 kg d’argento in cui è disegnato il trofeo) da vicinissimo in una sera di fine primavera. Il crollo fisico e fisiologico nella ripresa con i valori delle due squadre ristabiliti e un brasiliano del Rio Grande Do Sul a rimettere tutto in pari. Le parole pacate ed equilibrate del capocannoniere del campionato in carica che come noi, come tutti, non è contento (perché va bene la prestazione, va bene il pareggio, ma è palese che ci sia qualcosa da migliorare) a cui subito vengono assegnate molteplici interpretazioni, nessuna delle quali particolarmente costruttiva.
In più il patto astratto tra i fischietti di tutto il mondo che ha stabilito che non è ancora tempo che venga assegnato un calcio di rigore a nostro favore tantomeno se è del tutto evidente. Il Buondì dell’avventura giallorossa di Eusebio Di Francesco è di difficile interpretazione. E, come da tradizione, non c’è niente che lo faciliti. Una vittoria, una sconfitta, un pareggio. Avversari di medio, buono e ottimo livello. Mai sopraffatti senza appello, ma neanche mai convincenti a scena aperta. Per questo il Verona diventava (perché non potrebbe chiaramente esserlo) un piccolo banco di prova. La necessità di dimostrare l’evidente. Di vincere la partita che era quasi scontato avresti vinto.
Tutto liscio. Dzeko torna a segnare, Nainggolan anche, Florenzi gioca tutta la partita e anche molto bene, Cengiz Under non sfigura per niente, Pellegrini a mio avviso migliore in campo, Bruno Peres riesce addirittura a litigare con Gerson pur senza giocare e pur non c’entrando niente con il fatto. Stando almeno a quanto ci hanno raccontato. Potevano essere il nostro Monsieur Verdoux, questi 180 minuti vestiti di gialloblù che avrebbero rischiato di restituirci più vulnerabili e di conseguenza più facili da colpire.
La partita di Benevento è la logica conseguenza, ottenuta con ancora minor fatica. Perché vincere aiuta a vincere, anche quando gli avversari non sono all’altezza di poter portare a fare una valutazione. Perché nel calcio può anche essere che non si vada a capo nemmeno di queste partite. Invece, tutto sommato, nelle prime 5 della stagione la Roma fa 3 vittorie, un pareggio e una sconfitta (sappiamo bene come). Segna 9 volte e aggiungiamoci anche 6 pali. Subendo gol solo nella partita contro l’Inter. Siete anche voi, molto moderatamente, un po’ più fiduciosi di prima?